Secondo l’origine sociale le scarse opportunità di buona occupazione sono distribuite in maniera diseguale. L’Italia si caratterizza, infatti, come uno dei paesi dove più forte è l’influenza della famiglia di origine sui destini occupazionali dei figli, a prescindere dal livello di istruzione da questi raggiunto. Le ragioni risiedono nella struttura del sistema produttivo basato su piccole imprese in settori a modesto contenuto di capitale umano, e in cui l’importanza dei legami personali e familiari è centrale nei processi di selezione. Invece, rispetto alle generazioni precedenti, gli italiani entrati nel mercato del lavoro durante gli anni del miracolo economico avevano ottenuto un netto miglioramento nelle condizioni di lavoro e di vita. In sannicandro.org del 7 aprile scorso, il Direttore DMM, nell’editoriale intitolato “Passato presente e futuro” ha rilevato che “i nostri avi, per certi versi, hanno avuto la strada spianata al successo. La generazione dei nati negli anni 30-40-50 e 60 del secolo scorso hanno cavalcato l’onda del boom economico e sono riusciti a costruire molto più di quanto i loro genitori avrebbero potuto mai immaginare”. Verissimo. Fino agli anni Ottanta una laurea ha continuato ad assicurare un buon lavoro sia in termini di stabilità che di qualificazione professionale. Questo trend, purtroppo, tra le generazioni più giovani si é arrestato e quando -nell’aspettativa di raggiungere una posizione almeno pari a quelle dei propri genitori- si è continuato ad investire in istruzione universitaria, alcune belle speranze sono andate deluse. A partire dagli anni Novanta il numero di laureati è aumentato mentre, da parte dell’economia italiana, la domanda di lavoro non manuale, accreditato, è rimasta stabile e su livelli bassi. Ciò ha generato un surplus di laureati che non trovano un impiego corrispondente al loro livello di istruzione. Nel contempo sono aumentati i rischi di precarietà e frammentazione delle carriere lavorative, soprattutto nei primi anni dopo aver terminato gli studi. La conseguenza è che anche nel 2022/23 sono espatriati una percentuale altissima di giovani laureati tra 18 e 34 anni che scelgono di andare all’estero per cercare fortuna nel Regno Unito, la Germania, la Francia o la Svizzera. Lo spopolamento riguarda anche San Nicandro Garganico poiché parte di giovani si trasferiscono al centro o al nord dell’Italia. Alcuni vanno all’estero. Su tale drammatica realtà, recentemente, è stata rilanciata la teoria dell’inesistenza del merito. Voi direte, ma tutto questo cosa centra con il merito? Ha senso. Perché nel secondo decennio degli anni Duemila l’emigrazione è riesplosa però, mentre una volta lasciavano l’Italia soprattutto persone con una qualifica professionale e di studi inferiore alle medie nazionali, oggi, invece, il flusso è caratterizzato sia dall’età giovanile delle persone, quanto dal più elevato grado di istruzione (30% laureati). Molti giovani emigranti nelle risposte alle interviste hanno puntato il dito sulla mancanza di meritocrazia. Spagna e Italia vengono descritti come paesi che non riconoscono il talento. Soprattutto a causa delle pratiche nepotistiche di reclutamento. Il merito, secondo questa tesi, nella vita reale non esiste: è una illusione ottica. Pura fantasia. Uno di quei fantasmi di cui ci fanno credere l’esistenza. Per esempio nella scuola, dove lo studente bravo e disciplinato con pazienza, metodo e dedizione raggiunge eccellenti traguardi. Ma merito è una parola di cui non ci si può fidare. Fa pensare al libro Cuore di De Amicis. A masse di poverelli che, nelle soffitte a luce di candele, passavano le sere su quaderni logori a riscrivere sempre le stesse lettere, a migliorarsi, a trovarsi un posto in società. A diventare qualcuno attraverso lo studio. Il libro Cuore (romanzo italiano per ragazzi più tradotto al mondo dopo “Le avventure di Pinocchio”), verso la fine dell’800 è il libro borghese per la nascita dell’Italia: una specie di tranquillizzante che presenta una nazione mite, unitaria, dove regna l’armonia delle classi sociali. Peccato che questa parabola trionfante regga solo sulla carta, nei romanzi, nelle storie dove si narra di quelli che ce l’hanno fatta. Al contrario, fuori dalle pagine del libro Cuore quel merito non è servito un granché. Una pacca sulla spalla, una medaglietta di ferro, e tutto restava come prima. Ce lo ha ricordato Umberto Eco il quale, nel suo articolo di critica letteraria, Elogio di Franti, rivaluta il personaggio che nel romanzo Cuore è visto come il cattivo, tanto che alla fine viene espulso dalla scuola. Purtroppo, nessuno si crea da solo. Tutti siamo come ci hanno plasmato le nostre relazioni, le nostre reti, i nostri rapporti. Perché il punto è che viviamo nel caso, sottoposti ai rovesci della fortuna e nessuno sceglie dove e quando nascere. In questo caos, il merito è possibile quasi esclusivamente – quasi – per chi nasce in famiglie e contesti che possono permettersi quel merito. Famiglie che quel merito ce l’hanno già nelle mura di casa, dove ci sono libri, tempo, possibilità di viaggiare, conoscenza dell’italiano. La chimera del merito non fa altro che escludere gli altri, quelli che non ce l’hanno fatta. Perciò il contrario del merito non è il demerito, ma la rete. Sono le relazioni. La socialità. Lo spirito di comunità. E’ l’inclusione, la prospettiva di una scuola democratica dove, per tornare alla mitologia del libro Cuore, Franti ha la stessa attenzione di Enrico Bottini (che ha redatto il diario su cui è incentrato il libro). Dunque, nel paese dove dominano le dinamiche del familismo amorale, l’emigrazione giovanile, almeno nella sua componente altamente qualificata, è il risultato dell’incapacità di offrire opportunità di lavoro stabile e ben retribuito. In ogni caso, indagando a fondo sulle motivazioni sottostanti la decisione di emigrare, è emerso che la scelta di espatriare é influenzata soprattutto da immaginarie rappresentazioni sociali condivise, sia del luogo di origine quanto delle potenziali destinazioni. Un ruolo decisivo nel dare forma a tali rappresentazioni è svolto dai (social) media. In particolare dai gruppi Facebook “Italiani a Londra” che, da un lato, fungono da reti per ottenere informazioni da persone già espatriate (sia su come trovare lavoro, quanto su un luogo in cui vivere); dall’altro lato, costituiscono degli attrattori di narrazioni positive dei luoghi di destinazione, dato che si descrivono solo esperienze di successo. Grandi città globali come Londra e Berlino vengono dipinte come realtà aperte e dinamiche dove i datori di lavoro valorizzano il talento. A queste rappresentazioni positive fanno da contraltare rappresentazioni negative dei paesi di origine, descritti sui social come “senza speranza”. Tuttavia questa narrazione é spesso il frutto di una “mancanza di meritocrazia” astratta, senza che le persone abbiano sperimentato direttamente episodi di nepotismo. Ora, se ciò è vero, l’emigrazione può anche condurre a nuove disuguaglianze. Perché? I laureati italiani che emigrano all’estero hanno mediamente accesso a occupazioni più soddisfacenti e remunerative. Ma tali esperienze di successo sono selettive: più frequenti tra gli uomini, tra i laureati negli atenei del Nord, e di origini sociali più elevate. Un profilo opposto tra quelli a rischio di esclusione sociale in Italia. I paesi di destinazione, visti come Eldorado di opportunità, sono generatrici di grandi aspettative anche tra i lavoratori con basso titolo di studio. Aspettative che spesso persino all’estero si scontrano con la realtà di lavori precari e poco qualificati che non sempre apportano reali miglioramenti nelle prospettive di vita. Ecco il punto. La teoria sull’inesistenza del merito contiene indubbi elementi di giustezza. Ma va considerata in termini relativi. In primis poiché il 70% dei laureati, pur non vivendo il periodo del boom economico, tuttavia dopo gli studi universitari riescono, con qualche difficoltà, a raggiungere gli obiettivi programmati. Poi perché la scelta di emigrare spesso è associata a prossimi ritorni, tali da garantire maggiore probabilità di svolgere un lavoro qualificato, stabile, con salari più elevati rispetto ai loro coetani i quali, terminati gli studi, sono rimasti in Italia. Per questa fetta di giovani che torna l’emigrazione ha rappresentato l’espediente per superare una iniziale percezione di mancanza di meritocrazia. Difatti, una volta acquisite le competenze (tra cui spicca la conoscenza di una lingua straniera) e la professionalità necessarie per svolgere ad opera d’arte un lavoro più appagante, terminata la fuga, tale percezione svanisce. Ciò significa che, come tanti altri ostacoli, la parziale mancanza di meritocrazia non va creata o ingigantita dal nostro cuore.