La vita. la morte e l'eternità.

La vita, la morte, l’eternità

Il docente e scrittore sannicandrese Giuseppe Cristino, morto il 09.04.2020, oltre ai suoi tanti libri si è prodigato a redigere anche una breve recensione ad un libro intitolato “Indagine sull’eternità”. Nel commento alla predetta recensione, pubblicata su sannicandro.org, sono state sviluppate le impressioni ricavate, per lo più, da riferimenti espliciti, meramente letterali; la presente analisi, invece, é leggermente più approfondita in quanto afferisce alla cultura sottostante, al pensiero ed agli insegnamenti contenuti in questa specie di piccolissimo testamento letterario.
Giuseppe ha fatto un collegamento tra l’eternità e la Storia, soprattutto quella Storia “che si muove con noi”, la Storia “delle nostre origini, delle nostre radici, nel valore delle quali troviamo le ragioni fondamentali di un’esistenza che fa aspirare ad essere uomini giusti sia davanti alla Storia sia davanti ai fatti banali ed eroici dei nostri giorni:
1. in “un eterno viaggio verso Itaca” ;
2. perché “il ritorno non può mai far paura”;
3. perché “da qualsiasi parte io cominci, là ritornerò” (Parmenide).
Partiamo da qui, cioè iniziamo dal finale della recensione per cercare di capire:
1. che significato ha il riferimento fatto da Giuseppe, “da qualsiasi parte io cominci, là ritornerò”, a questo filosofo presocratico.Parmenide nacque ad Elea, una cittadina del basso Cilento che  i romani chiamarono Velia, in cui si erano rifugiati molti greci, fra cui tanti filosofi. Nacque lì ”la scuola eleatica” di cui Parmenide fu il massimo esponente. Parmenide è il filosofo dell’Essere. Eraclito, invece, è il filosofo del Divenire. Per Eraclito “Tutto scorre, nulla permane” (panta rei), mentre Parmenide sosteneva che il Divenire è un inganno dei sensi. “Non siamo su un fiume che scorre, ma dentro una sfera immobile, compatta, eterna. Cioè siamo  nell’Essere. Le cose non sono che nomi. Il nascere e il morire sono soltanto due modi dell’Essere. Ogni distinzione è ingannevole”.
2. L’esistenza degli umani é “un eterno viaggio verso Itaca”. Itaca é una metafora del cammino dell'uomo e del suo viaggio; é una metafora della vita, della ricchezza e della profondità con cui bisognerebbe fare il proprio percorso. Che poi è anche il percorso della conoscenza, per raggiungere la quale c'è bisogno di pazienza e dedizione. Ulisse e Itaca sono in una completa
simbiosi ed il viaggio, esattamente come quello di Ulisse, deve essere ricco di esperienze. E’ importante visitare molte città, al fine di accrescere il proprio bagaglio culturale. Per questo motivo si spera che lo stesso viaggio sia ricco di incontri e di scoperte per poter conoscere sempre più genti, sempre più cose, in vari campi della scienza, imparandole dai sapienti.

“L’uomo è per natura assetato di conoscenza”, scrive il filosofo Seneca. Infatti, l’uomo ha una tendenza innata alla curiosità e alla voglia di conoscere. In definitiva, quando si nomina Itaca, si parla del sapere, della conoscenza, della cultura, e di comel 'uomo possa conquistarla.
E’ meglio arrivare a Itaca quando si è maturi, anche se poi non è la meta, bensì il viaggio che conta, perché è il viaggio che permette di accrescere conoscenze ed esperienze. Il viaggio é dunque lo stimolo per apprendere. Comunque, Itaca non è solo un’isola, ma è il mito, il sogno, la chimera. “Senza di lei mai ti saresti messo in viaggio”, infatti senza un desiderio, una meta, sia pure questa ideale, non ci si metterebbe nemmeno in cammino. Se si ha un obiettivo in mente lo si realizza, o almeno, si prova a realizzarlo. Bisogna però stare attenti a non farsi illusioni, se l’obiettivo è troppo alto o è irrealizzabile. Perché se anche Itaca fosse povera, non si deve rimanere delusi. Il solo fatto che durante il viaggio vengono accresciute le proprie conoscenze ed esperienze dovrebbe essere, di per sé, già gratificante. Ciò che conta è che ci sia pace nell’anima al termine del viaggio avventuroso che è la giovinezza. E’ necessario rimanere giovani dentro, altrimenti non si troverà mai la propria “Itaca”.
3. Durante il nostro viaggio “il ritorno non può mai far paura”. Le paure rappresentano gli ostacoli che nella vita si possono incontrare. Vanno affrontati con coraggio e determinazione senza abbattersi. L’importante è non perdere mai di vista il proprio obiettivo: è necessario averlo sempre in mente, in quanto solo così si troverà la motivazione per andare avanti e raggiungerlo.
Molte sono le paure (la principale è quella dell’ignoto) e le difficoltà che, durante il viaggio, ci assilleranno, i dubbi che dobbiamo risolvere. In realtà molti degli ostacoli che incontriamo, sono creati o ingigantiti dal nostro cuore. L’anima però mostrerà i dèmoni che si devono affrontare. Dentro di noi ci sarà una battaglia, una disputa, nella quale potremo decidere di ascoltare o negare le pretese dei dèmoni. Tuttavia, non bisogna mai dimenticare che essi fanno parte di noi e che dunque devono essere accolti. Questo non significa che bisogna lasciarsi “dominare” dai dèmoni ma piuttosto che bisogna dominarli. Essere coscienti di sé. Conoscere i dèmoni per domarli. Infatti, essi non sono altro che fantasmi, che scompaiono se il nostro pensiero ed i nostri obiettivi diventano nobili ed alti, e se eliminiamo la loro presenza dall’animo (Konstantinos Kavafis, poesia “Itaca”).
Tutto ciò per significare che lo scrittore sannicandrese, nella sua attività culturale si distinse proprio per la sua grande conoscenza della romanità classica e fu un appassionato latinista.
Gli esponenti della letteratura e della filosofia romana classica (Virgilio, Orazio, Ovidio, Seneca, Cicerone, Lucrezio, Sallustio, Marziale, Catullo, ecc. ecc.) sono stati fortemente influenzati sia dalla filosofia greca, sia, per esempio, dal teatro di Sofocle (Edipo Re), quanto dalla letteratura, in particolare dai poemi di Omero - l’Iliade e l’Odissea -, dai racconti di Erodoto. Pertanto, i riferimenti omerici brevemente commentati, filtrati dal mondo romano classico, sono rappresentativi di valori che ci sono stati tramandati da parte della civiltà greca. Voi direte: ma quale  attinenza ha tutto questo con l’eternità?
L’eternità nell’antica Grecia Ha senso perché i greci antichi ci hanno trasmesso saggezza, tanto sapere,incredibile raffinatezza di pensiero, infinita bellezza, eccellente vocazione al gusto. Per sempre. Ed è questa la ragione che fa ipotizzare a Giuseppe, in “Polvere di stelle”, che l’Odissea sia il più grande romanzo mai scritto. Diceva Borges, che aveva letto tutto di Omero, anche le recensioni (anzi faceva delle recensioni immaginarie), diceva che in fondo Omero è stato fortunato perché ha raccontato tutte le storie possibili, oramai. E gli scrittori che sono
venuti dopo –ce ne sono tanti, gli scrittori abbondano- non possono fare altro che raccontare le storie d’amore, di guerra e di viaggio che sono tutte già contenute nell’Iliade e l’Odissea. E poi Borges aggiungeva che è vero, in fondo noi raccontiamo sempre le stesse storie, però le raccontiamo con il nostro linguaggio, le adattiamo ai nostri gusti, al nostro tempo … e quindi benchè siano le stesse storie poi in realtà ci appaiono diverse (Piergiorgio Odifreddi).
I greci sono stati gli inventori della filosofia ed hanno strutturato il pensiero in forme. In figure. In sistemi. Sono quelli che per noi hanno inventato il modo di pensare. Essi rappresentano le sorgenti da cui noi siamo nati e tutte le cose che non si capiscono, là, nella civiltà ellenica, le trovi espresse in forma chiarissima.
Con ciò si vuole intendere che la tematica dell’eternità è rappresentativa del modo di stare al mondo dei greci, secondo i quali il destino era la gloria, l’immensità, l’eternità. Non c’era nessun altro modo autentico di dare un senso alla propria vita. Non era gente che si aspettasse di trovare un granché dopo aver oltrepassato le soglie dell’Ade. Era nella vita che bisognava trovare un significato alla propria esistenza e per loro c’era un solo senso: essere ricordati dopo la morte. Combattere contro la morte significa fare, in vita, qualcosa per cui essere ricordati. Erano dei maestri, avevano il culto della memoria. Per questo avevano messo su l’apparato ricchissimo della mitologia. Perché non dimenticavano. E la gloria per loro era essere ricordati. Gloria, proprio intesa come: “ho fregato la morte”.Vivere, senza paura di morire, è l’insegnamento di Epicuro (fondatore di una delle maggiori scuole filosofiche dell'età ellenistica e romana): “la morte non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è la morte, quando c’è la morte non ci siamo più noi”. Un elogio alla vita, un’esortazione a rispettarla e a rimanere concentrati su di essa, a ragionare sui propri obiettivi e a scoprire le proprie potenzialità. Inoltre, Cicerone sosteneva che “filosofare è imparare a morire”, vale a dire che la morte è il motore della vita.
Principi che, tradotti in chiave moderna, vengono declinati nel senso che “più che temere la morte, dovremmo esserle riconoscenti”, “la cultura è il tentativo di gettare un ponte tra le due sponde, vita mortale e immortalità, e ci spinge a lasciare una traccia del breve tempo a nostra disposizione” (Sygmunt Bauman).
E, poi, Garcia Marquez il quale, nel romanzo “L’amore al tempo del colera”, evidenzia come “é la vita, più che la morte, a non avere limiti”. Anche Giuseppe, nel commentare il libro sull’eternità, pone al centro del dibattito la vita, non la morte. Infatti, egli si esprime in modo tale da ritenere il libro (oggetto di recensione) un viaggio in quell’infinito leopardiano che fa
“sovvenir l’eterno” e “le morti stagioni e la presente e viva e il suon di lei”; un viaggio che è come il “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”; un viaggio foscoliano per vincere “di mille secoli il silenzio”; un viaggio che non è mai “una menatio ad bestias”, ma un percorso per “riveder le stelle”. In ogni caso, tornando alle nostre radici, la Grecia antica era una civiltà di
maschi guerrieri e l’unico sistema che vi era per diventare eterni, per sconfiggere la morte, era diventare un eroe. In battaglia. Nascevano per combattere e quello facevano, nella speranza di una morte eroica. Perché, si ribadisce, per loro questo era fondativo del senso della vita. Eroe. Essere un eroe.
O, quantomeno, questo era quello che si tramandavano di padre in figlio. Chiaramente, oggi noi non viviamo più esattamente di quei principi. Ma li abbiamo dentro. Ci vogliono 20 minuti per fare di tutti noi dei guerrieri. Pochissimo. Perché ci sono secoli e secoli che abbiamo vissuto in virtù degli stessi principi incarnati nell’Iliade e nell’Odissea (A. Baricco, La fama di Achille).
In buona sostanza, è molto affascinante vedere come noi recuperiamo dai nostri padri, dai padri dei nostri padri, dai nonni dei nostri nonni … tali saperi, tali valori.
Magari, poi li ricuciamo a modo nostro, li adattiamo ai gusti dei tempi moderni, ma recuperiamo sempre le cose affascinanti.
Di conseguenza, così come ha fatto Giuseppe, non possiamo capire interamente la nostra contemporaneità se non ci confrontiamo con i greci.
L’eredità culturale A questo punto la domanda da porre è: che cosa ci ha lasciato in eredità, Cristino scrittore, con la predetta recensione e, più in generale, con le sue opere?
Nell’affrontare il tema dell’eternità, si voleva evidenziare - in maniera marcatamente autobiografica in rapporto alla propria formazione e preparazione culturale - come, in fondo in fondo, la Grecia antica fosse la madre della civiltà occidentale. E, quindi, siccome le nostre radici culturali sono greche, anche il discorso sull’eternità trova il suo fondamento nell’epoca ellenistica.
Noi umani siamo un po' tutti greci. A volte, anzi, siamo greci senza saperlo e, pertanto, l’eredità culturale di Peppino non può non basarsi su ciò che i greci ci hanno donato, uno dei lasciti più importanti del nostro essere uomini, e come grande sia la sua incidenza in molti aspetti della nostra vita, del nostro pensiero, della nostra arte, dei nostri comportamenti, nell’organizzazione della società.
I greci antichi, infatti, hanno riflettuto su se stessi, hanno discusso ogni singolo aspetto del loro mondo, valutandone pregi e difetti, hanno cercato di spiegarne le ragioni. Non si sono, cioè, limitati a vivere in un certo modo, ma si sono sforzati di capire che cosa significasse vivere in quel modo e come fosse possibile vivere diversamente. Così facendo, hanno elaborato percorsi critici, giudizi morali, schemi mentali: un vero e proprio tesoro di idee e immagini che copre ogni aspetto della vita umana. La cultura ellenistica, dunque, l’abbiamo dentro di noi, in ragione del nostro essere uomini (Giuseppe Zanetto, Siamo tutti greci). All’obiezione secondo la quale i contemporanei, allorquando non riescono a trovare la soluzione di un determinato problema, si chinano ad indagare il passato, ha risposto la scrittrice Cristina Dell’Acqua con il saggio “Una Spa per l’anima. Come prendersi cura della vita con i classici greci e latini”, precisando
che possiamo usufruire dei classici antichi per godere meglio della nostra vita di oggi e, seguendo le prescrizioni di Seneca, accrescere il nostro benesere e/o la nostra interiorità mediante l’assunzione di pillole di resilienza. Seneca è forse l’autore più moderno in termini di descrizione di che cos’è la nostra intimità e/o interiorità e, soprattutto, di come si fa a coltivarla. Resilienza è una parola oggi un pò di moda, ma che Seneca aveva già adoperata, perché è una parola profonda. Resilienza significa resistere. Ed è quello che ci esorta a fare, vale a dire di costruirci una parte intima, di resistenza ma anche di conforto, con cui ripartire davanti a quella che è la nostra quotidianità.
Lui suggerisce un modo molto semplice ed in paticolare, innanzitutto, il modo della conversazione con gli altri. Lui ama conversare con i suoi discepoli mettendo in piazza quelli che sono i suoi problemi, le sue difficoltà nel buon uso del tempo, delle abitudini da correggere. Seconda cosa, propone di ritagliarsi pochi minuti al giorno di meditazione. Ma meditazione non è qualcosa di ascetico, qualcosa di irraggiungibile, ma essa ha la stessa radice della parola medicare. Quindi, ritagliarsi alcuni minuti in cui noi ci concentriamo su noi stessi, sulla nostra giornata, e da lì ripartiamo per capire i nostri errori. Non per ritenerci dei campioni di infallibilità. Ma ripartire per la conquista di un miglioramento, di una trasformazione. Attivando
così quelle che sono le metamorfosi, di ovidiana memoria, esteriori ed interiori, che ci aiutano a vivere una vita sempre giovani dentro. Che è la giovinezza vera. In conclusione, Cristino docente ci ha insegnato che lo studio dell’antichità ci è necessario per mantenere vivo e continuo, il più possibile, il discorso sull’umanità. Perché lo studio dell’antichità finisce per essere uno studio del presente, un modo per capire come pensiamo e come ri-pensiamo.

La “perennità” della cultura greca consiste proprio in questo: nell’avere riflettuto sull’uomo, su ciò che l’uomo – a prescindere dalla sua epoca – deve affrontare per il fatto stesso di essere al mondo. “Io credo che l’uomo non va alla scoperta del cosmo, dei misteri spaziali, di terre, di mondi e, forse, di forme di vita ancor oggi sconosciute. L’uomo va ancora alla scoperta dell’uomo, delle sconfinate possibilità della sua intelligenza e del suo genio” (Giuseppe Cristino, Coriandoli).
Francesco Sticozzi

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