Il nostro codice penale, al libro II, titolo XII, capo II disciplina i delitti contro l’onore che, in buona sostanza sono quello di ingiuria e di diffamazione che nelle ipotesi aggravate non vengono trattati dal Giudice di Pace, bensì dal Tribunale in composizione monocratica con il rischio della condanna alla pena della reclusione.
Tali reati possono benissimo essere commessi a mezzo dei social network e, questo negli ultimi tempi accade molto frequentemente. Insultare una persona, offendendone la reputazione a mezzo dei social network – Facebook - anche se non viene fatto il nome ed, anche se l’insulto viene letto solo dai c.d. contatti dell’insultante, è un fatto penalmente rilevante e, può comportare una condanna per diffamazione.
Così ha statuito recentemente la Corte di Cassazione che ha annullato con rinvio una sentenza di assoluzione in gardo di appello a carico di un appartenente alle forze dell’ordine, che aveva utilizzato Facebook per commentare una sua vicenda privata e, relativa alla sua sostituzione nell’incarico con altro collega adoperanndo la frase "attualmente defenestrato a causa dell'arrivo di collega sommamente raccomandato e leccaculo..." e, rincarando la dose apostrofando con un'espressione volgare la moglie del c.d. collega “raccomandato”.
Per le frasi sopra indicate l'imputato, giudicato dalla giustizia militare, in primo grado era stato condannato tre mesi di reclusione militare per diffamazione pluriaggravata, mentre in secondo grado (appello) era stato assolto perché il fatto non sussiste in quanto l'identificazione del destinatario delle frasi offensive non era possibile alla generalità dei frequentatori di facebook ma solo dalla ristretta cerchia dei suoi contatti, non vi era l’indicazione del nome, dell’incarico oggetto di “defenestrazione” e, del tempo in cui avrebbe subito la defenestrazione.
L’assoluzione non era stata – giustamente - condivisa dal rappresentante della pubblica accusa sul presupposto che la pubblicazione su Facebook abbia determinato la conoscenza delle frasi offensive da parte di più "soggetti indeterminati iscritti al social network e che chiunque, collega o conoscente dell'imputato, avrebbe potuto individuare la persona offesa" e, quindi ha investito della questione la Corte di Cassazione.
La prima sezione penale della Cassazione, accogliendo il ricorso della pubblica accusa, con la sentenza 16712 del 2013 ha riconosciuto come la frase riportata sulla pagina facebook, anche se scritta solo sul diario dello scrivente, fosse ampiamente accessibile e, l'identificazione della persona offesa favorita dall'avverbio "attualmente" riferita alla funzione rivestita.
Tra l'altro per "il reato di diffamazione è sufficiente il dolo generico, inteso come volontà di usare espressioni offensive con la "consapevolezza di pronunciare una frase lesiva dell'altrui reputazione e la volontà che la frase venga a conoscenza anche soltanto di due persone", senza la necessità di una particolare dimostrazione, qualora l’espressione usata sia di per sé autonomamente e manifestamente diffamataroria, a prescindere dall’accertamento dell’animus iniuriandi vel diffamandi.
Sempre secondo la suprema Corte di Cassazione, "i giudici di secondo grado non hanno adeguatamente indicato le ragioni logico-giuridiche per le quali il limitato numero delle persone in grado di identificare il soggetto passivo della frase a contenuto diffamatorio determini l'esclusione della prova della volontà dell'imputato di comunicare con più persone in grado di individuare il soggetto interessato".
Quindi, non esistone zone c.d. franche e, certi comportamenti indipendentemente del luogo ove vengono messi in atto – virtuale o reale – sono ugualmente soggeti ai limiti del codice penale!