È scomparso Pàlandònjh. Si chiamava Nazario Palmieri e, come s’usa dalle nostre parti, aveva anche un soprannome familiare, di parte materna, Màrandòn’jh, che dovrebbe significare all’incirca, “Guai ad Antonio!”.
Nato in pieno Ventennio fascista, a metà degli anni Trenta, si trovò prima in età fanciullesca a subire le paure della seconda guerra mondiale - sia pure nella nostra periferia rispetto a gli scenari più cruenti ma sicuramente altrettanto difficili – e poi, nell’età adolescenziale, il dopoguerra.
Era un ragazzo d’u Quart d St’gnân; anzi, era nato al nr 24, in fondo, a Vico Vittorio Emanuele II, alla sua confluenza con il Canale di Stignano. Lì, nella casa paterna è morto mentre era in vacanza, all’età di ottantacinque anni, nella notte di San Lorenzo.
Perché ne scrivo? Forse per un mio senso di frustrazione che spiegherò oltre; ma anche perché finora della sua scomparsa non ha parlato nessuno.
Parecchi suoi coetanei, tuttora viventi, che nel loro vigore giovanile sono stati coprotagonisti dei tempi vissuti da Lazzâr, i quali sono anche miei rispettabili amici, potrebbero riferire molti episodi che lo hanno riguardato.
All’epoca si giocava “a pallone”, sullo sterrato estivo accanto al La Jabbìna, qualche volta al Largo, sempre sterrato e poi brecciato del Convento oppure, più tardi, soprattutto al “campo sportivo” vicino alla stazione ferroviaria ove alcuni fra quei giocatori più appassionati furono capaci di usare una prima mezza spianata orizzontale, oltre la balza che si levava di circa tre metri dalla sottoposta, attuale Via Michele Castiglia, allora coltivata ad orto, e l’altra mezza, lievemente risalente verso l’attuale Via Nicandro Giagnorio, ove, oltre l’angolo di sud-ovest, esiste ancora il rudere di un modesto fabbricato rurale (che era stata già all’epoca na casétta). Ciò, inizialmente, accadeva durante l’estate post-mietitura del grano.
In quel “campo sportivo” io ho conosciuto il portiere degli “Aquilotto” che tutti chiamavano Pàlandònjh; e, insieme a lui, anche tutti gli altri più grandicelli di me di pochi o più anni. Si pensi, tra i più giovani a Nd’njùcc’ Lucarèdda (Di Summa) e Colèlla, Tonîn Vocîn, i fratelli Scupétta (Marinacci) e i più anziani, Cenzîn Colèlla, Ggjannîn M’còcca (Di Leo) e V’ngènz La Stumbàta.
Sicuramente a Nazario Palmieri quel personalissimo soprannome, talvolta storpiandolo in Pàllandònjh, glielo avevano affibbiato i suoi amici coetanei, forse perché lui era un genio fra i pali di porta del campo da gioco, ed accettato in gioventù, pure per mutare quel “Màra” iniziale del soprannome familiare con il quale lui aveva sempre rifiutato di essere additato (peraltro lui apparteneva piuttosto a I Bbarrattêr). Più in là con gli anni seppi che disdegnava di essere nnummunât anche mediante quel singolare soprannome personale.
La mia modesta carriera calcistica l’ho intrapresa pure per essere a volte rimasto incantato dalle plastiche prese volanti di Nazario Palmieri che era, peraltro, spericolato nel tuffarsi sul pallone, tra i piedi degli attaccanti avversari, talvolta travolgendoli, ma anche sguar’sànn’c’ solitamente gli arti inferiori. Di ciò stoicamente, non si lamentava mai.
Lui era stato avviato al mestiere di sarto. Il resto dei suoi amici erano artigiani, soprattutto muratori, e studenti che sotto e intorno agli anni Cinquanta frequentavano le scuole superiori di San Severo.
Nazario, non possedeva lo scilinguagnolo e perciò rimaneva volentieri in silenzio fra i suoi compagni calciatori, sempre aitanti e pronti alla battuta. Egli pareva soddisfatto, pago solo delle sue azioni in campo, a valida guardia della porta. Quel suo comportamento, in seguito, lo estraniava dalla compagnia che spesso egli aveva imparato a non frequentare più oltre le partite.
Dopo il periodo più giovanile sannicandrese, emigrò in Germania. Trovò lavoro – se ho capito bene - presso una dipendenza della Nato a Ludwigsburg e - se si escludono le regolari puntate presso la sorella che abita a Livorno e il suo agosto sannicandrese quando, solo soletto, si recava volentieri al mare - dalla sua residenza nella città tedesca non si spostò mai. Con garbo, nelle sue solitarie estati sannicandresi, lo salutavo e trascorrevo qualche oretta a chiacchierare del più e del meno. Credo che non si sia mai sposato. Mi confidò qualche anno fa che, anche da pensionato, godeva dell’accoglienza presso una famiglia in cui si sentiva ben rispettato e che godeva del piacere di essere considerato dai ragazzi una specie di zio.
Lo avevo incontrato, l’ultima volta, ai primi di questo agosto, seduto davanti alla rinnovata sede municipale di Corso Garibaldi. Gli avevo confidato che sarei stato compiaciuto di potergli fare un’intervista sui suoi esordi calcistici di cui io immaginavo di non sapere molto. Mi congedai cordialmente, assicurandogli che lo avrei cercato io stesso per l’intervista, dopo il quindici di agosto.
Quando tentai di rintracciarlo ch Mméz’ó Chjân alcuni amici mi riferirono che era deceduto qualche settimana prima e che, dopo le esequie con la Messa in San Biagio, una persona – forse della famiglia che gli stava vicino in Ludwigsburg – aveva provveduto al funerale, a far cremare le sue spoglie e a portarne via le ceneri.
Sono rimasto sconcertato, interdetto e – l’avessi fatto prima, magari disturbando – mi sono recato quasi in pellegrinaggio, solingo, a casa sua. Un manifesto funerario affisso a u uàgghjh - non ne ho visti altri per il paese – annuncia tra le altre informazioni rituali “La famiglia Cappella e i familiari tutti annunciano... ecc.”
Atteso invano che qualcuno scrivesse di te almeno qualche riga sui media telematici che trattano cose paesane ho pensato di ricordarti io. Ciao Nazario Palmieri, fraternamente. Peppino Basile