Uscivo di casa per una passeggiata domenicale. C’erano due ragazzi, due bambini, circa dieci anni d’età ognuno: consideravano di chiamare un loro amico per giocare. Ho seguito la scena per forza di cose: erano seduti sul gradino di un portone, come me alla loro età, solo che io non avevo un cellulare, ai miei tempi lo avevano solo i grandi, e non tutti. Avevamo altro però e, se allora fosse stato un oggetto di largo uso come oggi, probabilmente lo avrei avuto anche io, e anche mio padre, e mio nonno.
«Angelo, ch’ fa?…Sténgh’ ch’ Andonjh’, t’ vulèmm’ chjéd’ s’ vuliv’ jucà a nascondìn’».
Non conosco la risposta e l’esito del pomeriggio ludico di quei ragazzi. Ho continuato a camminare dritto verso la mia meta, riflettendo su quel breve incontro. A qualcosa dovevo pur pensare per farmi compagnia.
La mia attenzione è andata spedita verso una sola parola e, voglio essere sincero, pensavo già ad oggi, quando avrei trascritto quei pensieri per condividerli in questa rubrica.
L’intenzione dei ragazzi era di giocare a nascondìn’, non a nnamm’ccjun’. Sostanzialmente non cambia nulla, il gioco resta lo stesso, il divertimento pure; è cambiato solo il modo di parlare, di un dialetto che va sempre più italianizzandosi.
Un po’ me ne dispiaccio, ma lo vedo quasi inevitabile. Ad oggi, tirando le somme un po’ a casaccio, la metà dei bambini preferisce chiamarlo nascondìn'; durante la mia infanzia era solo ed esclusivamente nnamm’ccjun’ con tanto di «10, 20, 30, 40, 50, 60…» più il bonus per chi aveva scarpe col tacco, anche se poi non le aveva nessuno.
Sono tornato con la mente a quei pomeriggi interminabili, quando non vedevo l’ora di finire i compiti per scendere in strada e giocare, quando già si diceva: “Non è più come una volta”, eppure a me bastava quello. Angelo, Antonio, Vincenzo, Matteo, ci chiamavamo anche noi utilizzando una cornetta: quella del citofono. Non rispondeva il diretto interessato, ma una mamma a cui dovevi chiedere prima il permesso.
Si giocava a nascondino, a palla e trucculìtt’, a palla e mmur’, a pallone – perché chiamarlo “calcio” ti sembrava esagerato –, a tarramùt’, a questi e tanti altri giochi che in un solo pomeriggio li passavi in rassegna tutti. Eppure anche noi avevamo i videogiochi: il Commodore 64, la Nintendo NES, il Sega Mega Drive. La PlayStation arrivò solo nella seconda metà degli anni Novanta. Li avevamo, ma come seconda scelta, perché lo spirito di aggregazione nessuna consolle poteva dartelo, neanche oggi, con internet alla portata di tutti: dimezza le lunghe distanze, aumenta quelle vicine.
Sarebbe facile dire che adesso è diverso. Lo è per molti, lo sento dire spesso. Lo dicevano anche a noi.
Ci dicevano che noi eravamo fortunati perché avevamo tutto, un “tutto” che se lo paragoni ad oggi è niente. Chissà perché quando metti relazione e in paragone due epoche, fai il conteggio solo di quello che a te mancava, non a quello che in più avevi.
Dicono che non ci sono più ragazzi per strada a giocare, ci sono e li cacciano per farli giocare da qualche altra parte. Vanno a giocare da qualche altra parte e si lamentano che non ci sono più ragazzi per strada.
Eravamo bambini e ognuno aveva il suo quartiere. Eravamo in tanti, più un pallone che faceva parte della comitiva. Giocavamo nelle stradine, il più in disparte possibile per non farci disturbare dalle auto che ti costringevano al “tale gioco”, senza contare la signora o il signore di turno col classico “jat’ a jucà o’ camp’ sportìv’”. Ci appartavamo per non disturbare e non farci disturbare, rintanati nell’universo parallelo che andava a crearsi. Adesso siamo cresciuti e non frequentiamo più quelle stradine, quegli angoli di mondo che appartengono solo ai bambini. Ci spostiamo in macchina, di passeggiare non se ne parla nemmeno, e percorriamo le vie principali. Mai incontreremo quei bambini al parco, per i vicoli, nei rioni di casa. Non li incontreremo perché siamo noi a non vivere più quella vita.
I bambini ci sono. Giocano. Io li vedo.
Se percorro in auto le loro stradine, cambio direzione per non disturbarli. L’unica verità è che il numero è cambiato: non ci sono più bambini a giocare o non ci sono più bambini? C’è una bella differenza, risultato di un decremento demografico di cui non hanno colpa.
Era una passeggiata domenicale la mia, direzione Parco San Michele. Era pieno di bambini, alcuni accompagnati, i più grandicelli già da soli a scorrazzare qua e là. Di tutta quella gente che non vede i fanciulli, neanche l’ombra, forse in casa a guardare la D’Urso in televisione.
Li vedevo giocare a non so che, facendo cose inimmaginabili dalla mia mente adulta. Io li vedevo semplicemente rincorrersi, loro le stavano vivendo quelle corse, quelle bici, quei calci al pallone, quei salti senza senso, e ho solo potuto immaginare quanto fosse speciale quel momento e di quando, un giorno, potranno dire che non è più come una volta.