Dire che addentrarsi in un discorso calcistico sia come entrare in un campo minato, è alquanto riduttivo. Il calcio è lo sport italiano per eccellenza, tanto da essere definito “sport nazionale”, laddove, sulla seconda parola nazionale, ci sono pochi dubbi di interpretazione, su sport, in molti hanno consistenti incertezze sul significato.
Sport è sinonimo di gioco, divertimento, salute. Sport a livello agonistico vede anche l’aggiunta di altri fattori: la passione, il denaro o la combinazione delle due.
Da un po’ di tempo a questa parte reputo gli sport di squadra come il ripiego dell’essere umano all’istinto innato di farsi la guerra, quella vera intendo. Il gioco di combattere, dove l’unica arma è un pallone e a fine scontro non si contano le vittime, solo il numero di punti messi a segno. Basti pensare allo Stadio Olimpico di Roma, costruito ispirandosi all’Anfiteatro Flavio, e ai termini spesso utilizzati in gara: undici gladiatori in campo, una bomba dalla trequarti, colpisce come un cecchino su punizione…credo abbia centrato il concetto.
L’attaccamento al calcio ce l’abbiamo da piccoli, mi riferisco soprattutto ai maschietti. Non sono rari i casi in cui, come primi regali d’infanzia, si riceve in dono una casacca mignon della propria squadra del cuore, le torte di compleanno dai colori sociali del club e tanto di corredo calcistico, prima ancora che il bambino possa avere un’identità autonoma. Sono certo che un padre tifoso preferirebbe avere una costola in meno piuttosto che un figlio tifoso di un’altra squadra.
Poi i primi passi, i primi amici e le prime sfide per strada. Sarà che basta poco, una palla e un po’ di spazio a disposizione; con l’asfalto ci vai di lusso, mal che vada, una strada sterrata piena di fossi è più che sufficiente: il ragazzo sportivo non è esigente (tranne a scuola coi radiatori spenti).
Ed ora eccoci al punto, dopo una settimana di sfide “Champions” che hanno fatto tanto discutere, spartendo le acque tra gioie immense e profonde delusioni. Mi piacerebbe contestualizzare le emozioni di gioia, amarezza e delusione in uno scenario prettamente sportivo, ma purtroppo così non è.
Non voglio demonizzare il calcio, sia chiaro. Io in primis lo seguo e tifo per il mio club, ma col dovuto distacco. Lo dico oggi, non più adolescente, quando ancora mi esprimevo con frasi tipo: “Abbiamo vinto” e “Abbiamo perso”.
Io vinco e perdo un bel niente. Gran parte degli appassionati, a questa semplice verità, ancora non ci arriva.
Nella scelta tra vittoria e sconfitta, è scontato che tutti propendano per la prima opzione, ed ecco come – secondo i dati dello scorso anno – la tifoseria italiana vede 8,3 milioni di tifosi juventini, 4,2 milioni tifosi del Milan, 3,9 milioni per l’Inter, 2,9 milioni per il Napoli e 1,9 milioni per la Roma, seguite a ruota dal resto delle tifoserie minori. Se quella semplice verità fosse veramente ben chiara, non ci sarebbe uno scenario del genere, starei parlando ad una platea di tifosi del Foggia; squadra a cui tutti teniamo, ma sempre come “seconda scelta”.
Vogliamo essere quelli che vincono, i più forti, vogliamo essere quelli che hanno ragione, quelli che “la vittoria è meritata” e “la sconfitta è per colpa degli errori arbitrali”. Semplicemente vogliamo salire sul carro del vincitore, ma non a tragitto iniziato, lo facciamo dal primo giorno che ci avviciniamo a questo sport.
Il senso di appartenenza per la propria squadra ci sta tutto in fondo, fin quando il gioco resta tale. Gli sfottò, la scommessa per un caffè al bar, che tu stia dalla parte della vecchia signora, del triplete o della squadra italiana più titolata al mondo. È ovvio che ognuno reputi il suo “primato” il più prestigioso ed anche questo fa parte di una sana rivalità. Quello che ho visto e letto negli ultimi giorni ahimè, va ben oltre il limite e accade sempre più spesso.
Offendere il tifoso è ammissibile? Non saprei.
Offendere la persona? Assolutamente no.
Quando la tristezza per una sconfitta va a scavalcare il tifoso fino ad intaccare la persona, il modo di tifare comincia ad essere marcio. Quando parli con le parole dei tuoi idoli, quando diventi ridicolo ed incoerente pur di difendere i tuoi colori, quando scatta in te il senso di superiorità con l’individuo che hai di fronte, dopo la vittoria del tuo club a discapito del suo, il gioco non è più un gioco, diventa un infimo pretesto che sfrutti a tuo vantaggio per sottrarti dalla piccolezza del tuo essere.
«Abbiamo vinto la Champions League!»
«Abbiamo vinto lo scudetto!»
No amico mio, tu hai vinto solo un momento di felicità, al massimo una schedina al Totocalcio. Piccoli momenti che possono costare rapporti reali, la tua reputazione e credibilità nella società, con le persone che frequenti, nella vita che stai costruendo nel concreto.
Chi indossa la divisa dai colori della tua fede calcistica, domani ne indosserà un’altra, poi un’altra ancora e infine godrà il suo denaro, avuto in dono da te, in un abito elegante. Costui non conosce il tuo nome, né il tuo volto, dunque chiediti se ne vale davvero la pena.