La voce del silenzio

    Il cielo era grigio e terso oltre le bandiere che sventolavano inermi sulla torre aragonese di Mileto. Un sole timido si nascondeva invano dietro una coreografia di nubi minacciose e il mare si fondeva col cielo in un bacio infinito.

    La vecchia Cinquecento stava parcheggiando nel piccolo spiazzale antistante, oltre la staccionata malandata che divideva la torre dal resto del mondo. Il rumore dei ciottoli al suo passaggio lasciava nuovamente spazio allo sciabordio delle onde che frustavano violente la scogliera, e le due sagome all’interno già pregustavano l’armonia del mare e del vento.

    «Che dici, ti va di fare due passi?» disse sorridendo ancora seduto al volante e aprendo la portiera, la risposta la considerava scontata.

    A fianco a fianco percorsero a memoria il piccolo tratturo fino alla balconata sul mare. Col naso all’insù gustavano il dipinto del cielo, come se non ci fosse più tempo, come se ogni secondo meritasse la loro attenzione, come fosse ogni volta la prima volta.

    Appoggiato sugli avambracci al parapetto e con lo sguardo perso, i suoi occhi viaggiavano verso l’orizzonte e riflettevano l’umore della natura. 

    «Non credi che il cielo sia stupendo oggi? – lo chiedeva sempre, per lui era sempre stupendo ammirarlo, – è assurdo come la gente non lo guardi mai. Forse non se ne rendono conto, o forse è difficile ammetterlo, ma hanno la faccia tosta di guardarlo solo quando è il cielo ad abbassarsi al loro sguardo, persi come sono a osservare la giungla della città». 

    Come un gatto fissa senza sosta la sua preda, non riusciva a distogliere lo sguardo dal sole. Riusciva senza poca fatica a tenere gli occhi aperti che, come tizzoni, riflettevano la luce del tramonto.

    «Vieni, andiamo a sederci sulla scogliera». 

    Oltrepassarono l’erba alta e scelsero lo scoglio più confortevole per le loro natiche, come da copione di ogni domenica.

    «Credo che il mare sia la cosa che più si avvicini all’infinito», disse tirando fuori il necessario per rollarsi una sigaretta, «almeno qui sulla terra intendo. È giusto che ci sia qualcosa in grado di ridimensionarci. I sentimenti forse ci vanno vicino, ma sono troppo astratti: la paura, l’amore. L’acqua invece la puoi toccare, non puoi mettere in dubbio che esista».

    Il vento più insistente gli pettinava i capelli come ali di un rondone, mentre impacciato cercava ancora di confezionarsi il tabacco. 

    «Non prendermi in giro, lo faccio da poco e ancora non ne sono capace», ma la risposta fu intangibile e di completa indifferenza. 

    «Ogni volta che ti propongo di venire qui non riesci a contenere la gioia, poi non fai altro che fissare il mare. Ne vieni rapito, eh?»

    Il sole scandiva il tempo nello spazio andando a dormire sotto il mare.

    I minuti nuotavano senza sosta. 

    Una folata di vento gli spazzò via il duro lavoro degli ultimi minuti. «Al diavolo! È la volta buona che smetta».

    Rassegnato della sua missione, continuava a fissare il paesaggio circostante. In direzione del tramonto torreggiava una sagoma anonima di pescatore intento a portare a casa il suo bottino, sullo sfondo in lontananza i primi bagnanti di fine primavera pronti a levare le tende. 

    «Chissà se stanno vivendo o stanno solo sfoggiando la loro vanità», disse voltandosi dalla parte del suo interlocutore distratto. «Più ci penso e più credo che molti vivano in un tunnel». Cambiò posizione come se avesse una platea ad ascoltarlo e continuò. 

    «Molti vedono il tunnel come la metafora di un periodo buio o dei problemi, ma tutta la nostra vita è un tunnel. Uno bello lungo.

    «Non vediamo l’inizio, come quando nasciamo, e non vediamo la fine. Viviamo solo nel mezzo e camminiamo senza sosta. Ci strattoniamo a destra e a sinistra, ma lo spazio a nostra disposizione è quello, e quello spazio è il mondo. Purtroppo nessuno ci ha insegnato le regole del gioco. Siamo arrivati a partita già iniziata e siamo stati costretti a inventarcele da noi».

    Il crepuscolo cominciava a sfoggiare la sua tavolozza di colori accesi e le nuvole si alleavano minacciose, quando i due si unirono in un abbraccio non ricambiato. 

    «Tu invece mi ami incondizionatamente. Non ti importa quanto sia alto o magro. Mi hai sempre amato perché io ti ho amato, e forse non sarebbe stato neanche necessario. Vero?».

    «Mh!» rispose mentre si divincolava dal fastidioso abbraccio.

    «Non sai dire nient’altro?» il suo non era un rimprovero, lo disse mostrando il miglior sorriso.

    «La strada che abbiamo da percorrere è la stessa per tutti e non sappiamo neanche il perché. Se possiamo farlo noi, perché non possono farlo tutti?» disse cambiando nuovamente posizione. «Dico, basta non calpestarsi i piedi a vicenda sotto questo dannato tunnel.

    «Siamo completamente al buio con una torcia in mano, una torcia che fa luce ogni tanto. Non possiamo essere distratti perché il momento giusto non sappiamo quando sarà. E non conta quello che ci accade, conta come reagiamo».

    La pioggia cominciava a cadere sporadica ricoprendo l’erba di un sottile velo bagnato. Le bandiere sempre più pesanti sventolavano a fatica, come a mettersi a riposo dopo una dura giornata di lavoro.

    «Meglio tornare…» lo strattone improvviso del guinzaglio gli soffocò le parole in bocca. «Piano, piano, bello! Neanche io voglio bagnarmi. Torniamo a casa».

    Sei orme venivano lasciate verso la Cinquecento lasciando la torre, mentre il sole lasciava spazio alla notte per sorgere in terre lontane.

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