Il cognome è il nome che indica a quale famiglia appartiene un individuo. Assieme al prenome, va a formare l’antroponimo. Dalle nostre parti, in aggiunta a questi ultimi, va inserito un terzo elemento, come accadeva per i latini: il soprannome. In piccole comunità – il soprannome – è fondamentale per identificare persone, casate, famiglie. Non è solo un nomignolo da “affibbiare” in età adolescenziale, è molto di più, più dello stesso cognome a volte, tanto da preferirlo prioritariamente per individuare chi si ha davanti. Come per il cognome, prende origine da una persona specifica, da un mestiere, da una particolarità fisica o caratteriale, da un luogo, e non tarda a originarsi un nuovo ceppo con individui che, in qualche modo, hanno saputo distinguersi, come nel caso di Matteo Giagnorio, da tutti conosciuto come u’ Bolognes’.
Non è difficile immaginare il motivo per cui era soprannominato così. Visse a Bologna insieme al fratello a metà del secolo scorso e, proprio in quella città, imparò l’arte che lo avrebbe contraddistinto per il resto della sua vita, l’arte di tagliare e acconciare i capelli. Con la sua storica bottega di via Roma, Matteo è stato il primo parrucchiere di San Nicandro Garganico, esercitando la professione per decenni.
Più che professione, la sua era una vocazione, e non sarebbe corretto neanche parlare al passato. Matteo non faceva il parrucchiere di mestiere, lui era parrucchiere e lo è stato fino agli ultimi giorni della sua vita.
Una novità assoluta per un piccolo paese nel dopoguerra: una donna poteva entrare in un salone di bellezza e acconciarsi come le dive del cinema, come le attrici dei fotoromanzi, come aveva sempre desiderato nei suoi sogni. Una donna poteva entrare nella bottega di un uomo e non sentirsi in un ambiente rozzo o elitario; col suo garbo, la sua professionalità e i suoi modi di fare, potevi concederti un lusso sentendoti a tuo agio.
Perché andare dal parrucchiere era un lusso, te lo concedevi raramente nel corso dell’anno o nell’occasione speciale. Le festività erano poche e lo sfarzo era contenuto, ma proprio in quegli esigui momenti speciali, acconciarsi da u’ Bolognes’ era un appuntamento fisso. La stragrande maggioranza delle nostre nonne e delle nostre madri, nel giorno del loro matrimonio, avevano un’acconciatura di Matteo. Per la comunione, per la festa di fidanzamento, per il carnevale e l’indossare il tradizionale abito della Pacchiana: come lo faceva lui u’ tupp’, non lo faceva nessuno, così come il resto dei suoi lavori. Vecchia scuola: senza tanti fronzoli, messa in piega, permanente e pettinatura ti duravano per giorni interi, probabilmente impartiva l’ordine di non muoversi a ogni singolo capello, dopo averlo strimpellato per bene, da buon direttore d’orchestra.
Matteo aveva 94 anni quando ha deciso di lasciare questo mondo, lo ha fatto in sordina, appena affacciatosi al 2018. Scrivo e riscrivo tante storie e piccoli articoli, con la buona abitudine di appuntarmi le loro date di stesura. Mai più scriverò “2017” nella data di un racconto, sarà solo un numero da leggere, ma mai più da scrivere. Così come Matteo non potrà più scrivere altre pagine alla sua vita, così come chiunque decide di mettere fine ai suoi giorni. Il dolore che ci provoca una perdita deriva dalla consapevolezza che in ogni individuo c’è qualcosa che è solo suo e va perduto per sempre. A noi resta solo il ricordo e pagine di storia da custodire gelosamente, e un testamento, il tacito testamento di qualcuno, il più importante. Non è scritto su fogli di carta e non corrisponde a nessun bene materiale, consiste solo nell’impegnarci a conservare le memorie nel modo che più avrebbe preferito chi non fa più parte di questa vita terrena.
Matteo è stato un uomo all’avanguardia, lo ha dimostrato nel passato, continuando ad esserlo nel presente. Lo notavi dalle piccole cose e nel desiderio di scoprire il mondo con gli occhi di un bambino. Mai egoista del suo sapere, non si è mai tirato indietro nel tramandare la sua arte al prossimo e nel trasmettere la voglia di vivere, facendolo con un sorriso.
Voglio ricordarti così, sorridente, mentre attorno a un tavolo offrivi ai tuoi ospiti un bignè alla crema di limone e un caffè al ginseng rigorosamente preparato da te. Poi a un tratto ti si accendevano gli occhi e cominciavi a parlare di forbici, di pettini, e come un coniglio che sbuca dal cilindro di un mago, compariva dal nulla una tua creazione, una treccia impigliata su un retino, e parlavi di termini tecnici di cui riuscivo a comprenderne solo la metà, ma capivo perfettamente tutto l’amore che portavi dentro.