Quest’anno, l’undici Novembre, l’amministrazione comunale di San Nicandro Garganico e il gruppo folk di Tommaso Russo, hanno ripreso, in parte, una vecchia tradizione che consisteva nell’offrire alla cittadinanza partecipante, una fetta di pane pugliese imbevuta di vino con sopra olio e le alici salate, il tutto accompagnato da un buon bicchiere di vino.
La pietanza veniva distribuita sotto un gazebo dentro un piatto di plastica da donne vestite da campagnole, come erano vestite le massaie della vecchia civiltà contadina locale.
Nella stessa piazza l’orchestrina folk intonava canti del passato. I musicisti erano vestiti da pastori, e alcuni si esibivano in danze di gruppo.
Le note di quella musica infondevano coraggio ai più timidi e stimolavano i partecipanti a cantare e a ballare coinvolti dal ritmo allegro.
In alto una chiesetta, amministrata da oltre due secoli dalla famiglia Di Maso, emigrata negli anni cinquanta in Canada, che di padre in figlio provvedono a mantenerla in perfetto ordine e viene messa a disposizione della cittadinanza il giorno 11 Novembre, data della sepoltura del Santo.
Un tempo la tradizione veniva organizzata con il supporto di tutta la cittadinanza che metteva in partecipazione il meglio dei propri prodotti e il suo genuino entusiasmo.
Nella piazza vi era un mulino per la spremitura delle olive, e il primo boccale di olio si offriva al Santo per tenere sempre viva la luce della lanterna posta nella chiesetta.
Vi era anche una taverna, punto d’incontro degli amanti di Bacco; per l’occasione l’oste bandiva una lunga tavola con grandi boccali di vino novello, per rispetto del detto “a San Martino ogni mosto diventa vino”. I clienti, di rimando, portavano i loro prodotti e così iniziava la festa.
Nel pomeriggio, ricoperto da un mantello a ruota e sopra un cavallo bianco arrivava il boscaiolo, dietro di lui un mulo e un asinello ai lati dei loro dorsi il carico di legna e sacchi di carbonella, sopra ancora piccoli sacchi di castagne, di noci e di fave.
La piccola carovana veniva accolta, all’ingresso del paese, dai ragazzi festanti, che incitavano le bestie a salire la scalinata su fino alla piazzetta, il tutto fra il fragore di risate e di ragli.
Una volta raggiunta la piazza, il boscaiolo liberava le bestie dal carico, le legava e le governava attaccando al muso di ognuno una sacchetta piena di paglia mista a un pugno di biada; dopodiché allestiva un grosso falò suscitando la curiosità e l’interesse dei bambini che seguivano attentamente come rompeva le frasche secche e come sistemava i tronchi più robusti, come se costruisse un piccolo castello.
Il falò che dona calore e luminosità, rappresenta simbolicamente, l’estate, il miracolo del Signore che concede al Santo di riscaldare i poveri: i famosi leggendari “tre giorni d’estate di San Martino”.
Le donne intagliavano le bucce delle castagne: alcune venivano arrostite direttamente sul fuoco scoppiettanti, mentre altre venivano sbucciate completamente e cucinate in un grosso recipiente con acqua, sale e foglie di alloro. Anche le fave venivano sbucciate a una estremità per evitare il loro scoppiettio e venivano fatte cuocere nelle ceneri calde del falò.
I pastori portavano panzerotti e pizze ripiene di ricotta cucinate nei forni a legna dalle donne. La ricetta della pasta per fare i panzerotti è stata fornita da una massaia novantenne: per ogni uovo occorre un cucchiaio da tavola di zucchero, uno di olio e farina fino ad ottenere un impasto morbido lasciando raddoppiata la pasta, dopodiché si taglia a quadrettini di dieci centimetri, nel mezzo viene posta la ricotta mista allo zucchero e alla polvere di cannella e di garofano. I quadrettini vengono piegati e chiusi facendo attaccare la pasta schiacciando il bordo con le dita unte di olio, per mantenere le dita sempre libere dalla pasta.
Vengono poi cucinati nel forno o fatti friggere nell’olio girandoli continuamente per evitare che crepino.
Il fornaio e l’ortolano a loro volta portavano la pizza fatta col ripieno di cipollotti teneri, uva secca, alici sotto sale e un pizzico di pepe.
Il cacciatore s’impegnava per quell’occasione di portare l’oca migratrice. Spesso però veniva rimpiazzata da quella domestica che lui stesso allevava con tanta cura e che veniva cucinata col ripieno di pane e formaggio grattugiato, sale, olio, aglio, prezzemolo, chicchi di uva secchi e una spolverata di pepe.
Quattro racconti vi sono in merito a questo volatile.
- Poiché la carne dell’oca è grassa e nutriente è adatta a sostituire la carne del maiale, quindi considerata ottima scorta di proteine per il digiuno natalizio che iniziava il giorno successivo.
- Il Santo dopo la Sua conversione al cristianesimo non tollerava simbologie pagane come alcune specie di alberi e le oche stesse che erano state scelte per vigilare l’Olimpo.
- La popolazione voleva eleggere San Martino a Vescovo, Lui per restare fedele al monastero voleva rifiutare tale nomina e corse a nascondersi in una stalla affollata di oche le quali alla vista dello sconosciuto fecero un tale baccano da svelarne il nascondiglio.
- Le ossa spolpate dell’oca cucinata, erano usate come previsione meteorologica: se risultavano bianche, l’inverno sarebbe stato mite e corto, se invece scure sarebbe stato lungo e rigido.
Il pescatore portava le acciughe sotto sale, altri racconti in merito a questo pesce:
- San Martino, diventato monaco, viveva di questua ricevendo frutta secca e pesciolini che i pescatori offrivano in grande quantità poiché invenduti. Dalle acciughe, il Santo ricavava una salsa, dal latino “ garum “, la cui ricetta aveva copiata dai romani quando faceva parte del loro corpo di cavalleria, vecchissima ricetta si suppone, in quanto già ai tempi dei greci definivano chiamare i piccoli pesci con la parola garon. Le acciughe venivano ricoperte di aceto e qualche erba aromatica e fatte macerare per circa un mese. Il brodo scolato veniva utilizzato come salsa per condire in tutte le pietanze.
- Nelle taverne le acciughe erano presenti per un duplice motivo:
il primo perché essendo sotto sale e offerte alla clientela alimentavano la sete e quindi il consumo di più vino.
Il secondo perché messe in recipienti di terracotta e ricoperte di aceto e olio producevano uno sgradevole odore da attirare gli insetti nocivi alle botti.
Le taverne erano frequentate da uomini esaltati che sotto l’effetto del vino sparlavano, cantavano e dimenticavano i problemi quotidiani, svelando i segreti e raccontando storie talvolta non veritiere. Si racconta che una sera, di San Martino, un cliente ubriaco svuotò il contenuto del recipiente malsano su una fetta di pane. La leggenda narra che l’aceto si trasformò in vino e le acciughe alterate acquistarono un sapore prelibato.
Da qui la tradizione sannicandrese “pane, olio, vino e acciuga”.
La corsa dei sacchi era lo spettacolo più divertente, soprattutto quando i protagonisti erano gli accaniti bevitori in stato di ebbrezza.
Un’altra attrazione era la famosa cuccagna: un grosso palo unto di grasso sulla cui cima era attaccato il sacco di San Martino pieno di prodotti stagionali.
Le coppie appena sposate per quel giorno si procuravano il vino novello e preparavano piccoli taralli (biscottini) fatti di uova, farina, zucchero e semi di finocchietti selvatici, ottimi inzuppati nel vinello. Gli amici e i parenti a tarda notte visitavano le abitazioni degli sposini portando loro un braciere fatto di stagno o di ottone colmo di brace del falò. Si suonavano e si cantavano stornelli con rime inventate al momento.
Portare il fuoco in casa, oltre a purificare l’ambiente, significava soprattutto tenere sempre vivo il calore del rapporto di coppia.
San Martino, Patrono dei soldati, viaggiatori, delle fiere di bestiame, cavalieri e cavalli, sarti, sommelier e dei cornuti.
Due versioni a proposito dell’ultima definizione: la prima 11/11 corrisponde alla data del Santo, indicata con le due mani simboleggia le due corna.
L’altra è che nelle fiere vi erano affollate da animali con più corna.
Un parroco, non più giovane di Vieste, rivelò altri due episodi, poiché le taverne erano frequentate da donnette allegre che d’accordo con l’oste convincevano i clienti a consumare più vino in cambio di qualche loro prestazione che non sempre andava a buon fine; ancora peggio andava ad alcuni esaltati che giocando ai dadi mettevano come posta le proprie mogli.
Le tradizioni dell’antica civiltà contadina rappresentano la vera cultura nostrana, eterna, quando nel tempo vengono spolverate, la nostra cultura risulta più affascinante e moderna.
La popolazione del Gargano attraverso le azioni di massa deve sostenerla con orgoglio ed entusiasmo deve comprendere che cultura è anche il recupero di piante e di animali in via di estinzione, l’artigianato, la musica e il folklore.
La semplicità dell’entusiasmo è meglio delle proposte politiche spesso fatte di parole altisonanti ma poco produttive.
A San Martino
finisce di seminare il contadino
che senza aiutanti
da solo copre le sementi
s’arrampica sulle montagne
a raccogliere le castagne
l’oca la fa cucinata
per essere spolpata
prega con il cuore esultante
perché le ossa risultino bianche
spacca tanta legna
zappa e pota la vigna
per ottenere un buon vino
da offrire a grandi e piccini a San Martino.
Antonio Monte da Milano