L’annuale ricorrenza del Carnevale è ancora piuttosto sentita e festeggiata, da gran parte della popolazione sannicandrese, con usanze molto interessanti e, in un certo modo, coinvolgenti per tutta la popolazione.
Le origini possono essere fissate a qualche centinaio di anni fa, in base alle testimonianze scritte esistenti nella cultura locale; la durata si estendeva dal 17 gennaio - commemorazione di Sant’Antonio abate con i tradizionali fuochi davanti alle chiese e nei quartieri più popolosi (come attesta il proverbio A Sant’Antòn, masckur’ e son’) – alla Prima Domenica di Quaresima, con la tradizione della esposizione della Quarantana, pupattola con abiti semplici, simbolo del periodo di “quarantena”, intesa come privazione di taluni cibi e periodo di riflessione spirituale, in preparazione alla solenne festività religiosa di Pasqua.
Ma solitamente, tre sono i giorni in cui si concentrano le attività carnascialesche, la domenica, il lunedì e il martedì precedenti la celebrazione delle Ceneri fissata, generalmente, quaranta giorni prima di Pasqua.
Ed è proprio nei tre giorni ricordati che si manifestano la spontaneità, un ricco senso di fantasia e la partecipazione popolare nella totale libertà di scegliere, con assoluta e originale “mupìa”, cosa indossare per ogni giorno della ricorrenza: da una semplice maschera fatta di qualsiasi indumento indossato magari al rovescio a costumi tipici come Arlecchino, Pulcinella o altro, ma dando – spesso - priorità e importanza al tradizionale ed elaborato abito, per la donna, della “pacchiana”, in più versioni – quella ricca e quella di ceto medio, in base ai monili d’oro indossati per ostentare una certa ricchezza – accompagnata dall’uomo – fidanzato o marito o papà o altro parente – con un vestito di velluto da pastore, indossato il giorno del matrimonio, per ricordare l’antico e più praticato lavoro di tanti sannicandresi, più o meno ricchi, in base al possesso di case e animali d’allevamento.
La formazione di gruppi musicali organizzati da tempo o spontanei, in abiti zingareschi, in giro per il paese, ha visto svilupparsi nel tempo la caratteristica fondamentale del carnevale locale, cioè divertirsi insieme senza freni, tra balli, danze e concertini, nelle piazze principali, per dimenticare i problemi quotidiani legati alla povertà e alle preoccupazioni, intingendo in un buon bicchiere di vino locale il dolce preparato per l’occasione, u’ pupurat’, con vari ingredienti, nel tempo sempre più modificati per renderlo più saporito.
A questi gruppi si aggiungevano altri, specializzati nella drammatizzazione in dialetto di ditt’, storie, episodi del proprio vissuto quotidiano, spesso scritti da contadini, per lo più analfabeti, ma dotati di estro, fantasia e talento che li distingueva anche al di sopra di tanti intellettuali dell’epoca, abili in altre attività letterarie.
Nel tempo, la fantasia, l’originalità e la “mupìa” dei sannicandresi si sono sviluppate, tanto da richiamare curiosi e ammiratori anche da altri centri garganici e di Capitanata, specialmente grazie a taluni personaggi che sono diventati l’emblema del carnevale, ispirandosi a episodi curiosi o avvenimenti legati alle condizioni economiche del momento, raccontati con brio e ironia: il duo Tr’petta e Cusumickj’, i fratelli Angelo e Nicola Campanozzi, insieme all’amico Giovanni Vocale “Camatedda”, con scenette divertentissime e costumi sgargianti, anche piuttosto costosi (la mupìa è anche questo!), Matteo del Gargano con le sue rime per interpretare la vita quotidiana, Michele Grana, uno dei pochi sannicandresi ancora capaci di destare curiosità, interesse e spunti di riflessione, da “cantastorie”, senza maschera, con le sue interpretazioni satiriche sulla politica locale o episodi di un certo scalpore.
Da oltre un ventennio, però, si dice da più parti che il carnevale sannicandrese non rispecchia più la tradizione di un tempo, sia perché la popolazione ha subìto una drastica riduzione nelle nascite e di molte famiglie che, per mancanza di lavoro, hanno dovuto cercarlo altrove, nel Nord o all’Estero, quindi sono in pochi quelli che lo vivono da protagonisti, mentre tanti fanno da semplici e curiosi spettatori.
Qualche fantasioso amministratore comunale, di concerto con la Pro Loco di allora, ha pensato di dare vitalità alla manifestazione introducendo l’usanza dei carri allegorici, altrove motivo di divertimento e attrazione perché fanno parte del programma di sviluppo di specifiche realtà geografiche ed etniche, ma assolutamente fuori luogo per San Nicandro, dove nessuno si è mai sognato di imbrigliare la fantasia di una popolazione con delle regole e dei concorsi a premi, a carnevale; come a “voler deviare un fiume in piena, lasciando che l’acqua scorra nel suo alveo secolare” scrive Enzo Lordi in uno dei suoi libri, a tal proposito.
A ciò si aggiungano i veglioni organizzati da ristoratori o parrocchie o associazioni, proprio nei tre giorni dei festeggiamenti principali. Per carità, non sono contrario a questa iniziativa, ma ho sempre sostenuto che vanno inseriti in altri momenti e giornate in prossimità della ricorrenza, in modo che tutti i sannicandresi, in maschera, possano andare in strada per esibirsi, sfogarsi nel ballo e nel divertimento comune, da protagonisti del Carnevale.
Dopo la sfilata per le vie principali e i quartieri del paese, invece che soffermarsi con balli e rappresentazioni varie soltanto a Piazza IV Novembre, gli stessi numerosi partecipanti dei carri, lasciati a parcheggio i carri, potrebbero sfilare in gruppo per corso Garibaldi, corso Umberto, le vie del centro, che sono spopolate e silenziose, senza il frastuono e l’allegria del momento.
Per mantenere vivo e rinnovare il senso della festa basta poco, cioè stare tutti insieme, per divertirsi liberamente, consapevolmente e apprezzabilmente, cercando di ripristinare il carnevale di una volta, ammirato anche dai forestieri, che da tempo non vediamo più.