La chiesetta rurale di S. Giuseppe con l'annessa abitazione eremitica in agro di San Nicandro Garganico, sorge sull'omonima collina pochi chilometri a sudovest dell'abitato, in posizione dominante grazie ad una eccezionale visuale panoramica su tutta la parte nord dei confini comunali, inclusa l'intera area urbana, fino ad arrivare al territorio di Lesina, ai Frentani, alla Maiella e al Gran Sasso, perdendosi nel mare Adriatico oltre le Isole Tremiti.
E' citata dalle prime visite pastorali che i vescovi di Lucera compivano sul territorio e cioè sin dal Seicento. Nella visita del vescovo Domenico Morelli, avvenuta nel 1688, la descrizione minuziosa del complesso ci restituisce una situazione molto simile all’attuale stato architettonico, che nei secoli non deve, quindi, aver subito stravolgimento alcuno. L’estensore seicentesco della relatio ci dice che al suo interno vi era un altare in pietra (descrive praticamente quello attuale), sulla cui sommità era incorniciato un quadro della Fuga in Egitto, “con le immagini della Madonna, di S. Giuseppe e dell’Angelo”. Si riporta come la chiesa non avesse un “patronus”, cioè un proprietario e il rettore, “ad nutum amovibilis”, è tale don Tommaso di Dionisio. Gli oneri delle messe sono stabiliti da un legato testamentario in favore del fu Sebastiano Maretti, formalizzato da atto del notaio Giovanni Nicola Saggese in data 10 settembre 1648 (a quella data e a quell’atto, probabilmente, risale la volontà di edificare la chiesa). In esso si stabilisce, tra le altre cose, che le messe vengano pagate con le elemosine fatte dal sacerdote che sarà scelto dal principe di San Nicandro Baldassarre Cattaneo, o dai suoi eredi e successori, e che al momento era il sacerdote don Domenico Fioritto. La chiesa, stando a quanto scrive il relatore della santa visita, non aveva dote alcuna e, nelle necessità, soccombevano le elemosine dei fedeli. Nella descrizione del corpo di fabbrica, infine, cita (tutto com’è ora) anche la porta a sinistra “che accede a due locali dell’eremita, ai quali è adiacente un cortile murato, con una porta da cui si esce su un piccolo frutteto con cisterna, dello stesso eremita”, del quale, però, non cita il nome.
Sebbene la cappella non avesse dote (nei tempi antichi, ogni chiesa o cappella doveva averne una per sostentarsi: di solito erano beni immobiliari donati per testamento, ma anche armenti e masserizie), gli obblighi restavano comunque in capo al principe di San Nicandro. Lo stesso Sebastiano Maretti infatti è citato nel testamento di morte (anno 1739) del principe Baldassarre Cattaneo della Volta, che scrive: “Dichiaro, che in S. Nicandro mio feudo stà fondata una Cappellania che è stata istituita dal quondam Signore D. Domenico Cattaneo (1613 – 1676, nda) Principe di S. Nicandro mio padre di felice memoria come erede del quondam Signore Baldassarre Cattaneo suo fratello per ordine del quondam Signore Sebastiano Maretti; qual cappellano ha obligo di celebrare la messa nell’oratorio di S. Giuseppe, ò vero nella Chiesa Madre di detto luogo, alla forma dell’istromento dell’erezzione di detta Cappella, in atti del notar Giovanni Nicola Saggese, ò altro più vero notaro a 7 di maggio 1650”. Nell’atto notarile si prescrive che, qualora le condizioni atmosferiche non permettessero di recarsi a S. Giuseppe, le messe dovevano celebrarsi nella Chiesa Madre, all’altare di ius patronato della famiglia Ferrari, probabilmente quello dedicato alla Natività.
Nel 1781, durante la visita pastorale di mons. Paolo Mozzagrugno (reggente di Lucera, che è sede vacante) è testualmente citato che si ritrovano “adempiti tutti i decreti della passata santa visita” ma l’amministratore apostolico “manda che si accomodasse il tetto, atteso piove dentro la chiesa”.
Con le leggi eversive della feudalità, all'incirca nel 1808 (regno di Giuseppe Bonaparte), la chiesa con tutto il territorio circostante passò al demanio pubblico, mentre la giurisdizione ecclesiastica continuò ad essere esercitata comunque sul complesso, per ovvie ragioni di culto. Continuerà, di fatto, ad essere accudita a fasi alterne da eremiti (ne risultano parecchi, nei secoli) che ne detenevano il possesso sempre per conto della Curia vescovile di Lucera e sotto la sorveglianza del vescovo, del vicario foraneo o dell'arciprete curato.
Così nel 1829 Saverio Mastrovalerio scrive al vescovo che “spinto dalla devozione verso il Patriarca S. Giuseppe, vedendo tutta diruta la chiesetta rurale dello stesso, coll’aiuto del Signore l’ha ristrutturata con suo grave dispendio, in modo che oggi spinge alla divozione questo popolo di spesso visitarla”. Il Mastrovalerio chiede al vescovo il rilascio di un documento affinché “non potesse essere da malevoli impedita questa sua divozione, e quasi tutela della cappella” e, dunque, “non essere da altri frastornato nell’esercizio”. Il 20 maggio dello stesso anno il vescovo mons. Andrea Portanova acconsente: “permettiamo all’infrascritto oratore di poter colla sua divozione promuovere il culto verso il Patriarca S. Giuseppe nella cappella rurale sotto l’istesso titolo, appartenente a questo comune, sempre però coll’intelligenza del Rev.do Vicario Foraneo e del Signor Arciprete, e senza potersi pretendere sia da esso oratore che dai suoi eredi, diritto o prerogativa sopra l’istessa”. Le prescrizioni del vescovo Portanova verranno, sullo stesso documento, controfirmate per approvazione da altri due vescovi suoi successori, nelle rispettive visite pastorali: Giuseppe Iannuzzi, il 29 aprile 1844; e Guseppe Maria Cotellessa, il 29 novembre 1872. Nella santa visita di mons. Giuseppe Di Girolamo del 1929, poi, la chiesetta è soltanto citata tra le cappelle rurali: risulta di stato discreto nel tetto e nelle pareti, mentre le condizioni del pavimento sono descritte come pessime.
Verso gli anni '60 del Novecento, ne era in possesso per successione ancora la famiglia Mastrovalerio, la quale forse per motivi logistici (risiedeva fuori San Nicandro) ed economici e nonostante gli sforzi, non riuscì a mantenere in buone condizioni una fabbrica che già nei secoli addietro permaneva sempre in condizioni non ottimali. Tuttavia, continuava a praticarsi il culto: già negli anni '40, da testimonianze orali e fotografiche, sappiamo che il 19 marzo, festa di S. Giuseppe, dai sannicandresi si soleva recarsi sulla collina, partecipare alla messa e fare scampagnata. La chiesa, tuttavia, nel tempo venne murata per scongiurare agli avventori eventuali incidenti dovuti a crolli e le messe si celebravano all’esterno, nello spiazzo davanti alla porta. Sul finire degli anni '50 è ancora documentata la festa, con messe, processione e giochi ludici.
Nel 1974, dunque, l’edificio è ormai abbandonato, sebbene la gente vi si rechi a fare scampagnata come di consueto il 19 marzo. Rosa e Amelia Mastrovalerio, eredi di Saverio, formalizzano un documento in cui “cedono la custodia della predetta chiesa, con annesse costruzioni e servitù successivamente edificati dai loro familiari” (ma, evidentemente, soltanto riattati, dato che esistevano già nel ‘600) ai Frati Minori (che all’epoca reggevano la parrocchia di S. Biagio), rinunciando a qualsiasi diritto o pretesa futura esclusivamente nel caso in cui la Curia fosse consenziente e la chiesa e le strutture pertinenti venissero destinate esclusivamente al culto, alle esigenze dei frati o qualsiasi altro uso a cui le autorità religiose volessero destinarli, escludendo i fini di lucro.
Fu proprio nello stesso periodo che Michele Ciavarella (l'attuale possessore), insieme ad altri amici, si interessò del luogo e volle restaurarne i locali diruti e provvedere ad accomodare anche il tetto della chiesa. Al punto che, come rinviene da una scrittura epistolare del 16 aprile 1980, il vescovo dell'epoca mons. Angelo Criscito, a seguito di richiesta scritta del Ciavarella, consente a quest’ultimo di restaurare il complesso e di occuparne i locali a nome della curia, senza corrispondere alcun canone fino a concorrere alle spese di restauro. “L’uso – scrive bene il vescovo Criscito - dev’essere condotto in ossequio alla morale cattolica. In caso contrario il fiduciario deve lasciare subito i locali”. Due settimane prima, il vescovo aveva chiesto per iscritto all’arciprete don Vincenzino Palmieri di relazionare con estrema precisione se la particella catastale 63 (foglio 49) fosse tutta comunale o se vi era qualche suolo di proprietà della chiesa. Non risultano risposte da parte dell’arciprete ma ad un certo punto, pochi anni più tardi quando il Comune approva il primo progetto di istituzione del Parco S. Giuseppe, nella particella 63 spunta rifrazionata (e qui sarebbero da chiarire un po’ di cose) una nuova particella, la A, che comprende la chiesa, il locale sul retro e la pertinenza esterna delle aiuole (lati NW, SW, SE), escludendo invece le altre unità immobiliari che, ancora oggi, risultano al catasto parte pubblica, mentre l’intero immobile non è ancora regolarmente accatastato.
Il 19 aprile 1980 Ciavarella costituisce un’associazione, l’Opera Pubblica Sociale S. Giuseppe, avente fini culturali, sociali ed eco-ambientali, che i soci dichiarano doversi occupare anche del restauro del complesso di S. Giuseppe. L’associazione a S. Giuseppe trova sede, mentre nei locali contigui alla chiesa compare un forno a legna e una stanza con letto e alcuni arredi domestici di fortuna, dove Ciavarella porrà il proprio domicilio. Gli associati passano a farsi organizzatori delle feste in onore di S. Giuseppe, formalizzando inviti ad altre associazioni, alle autorità e al parroco per la celebrazione della messa.
Il 5 febbraio 1982 il vescovo Angelo Criscito, integra la concessione fatta al Ciavarella due anni prima, precisando che la direzione del culto e delle funzioni religiose rientrava nella pertinenza esclusiva del parroco don Giuseppe De Francesco, al quale (sempre in quanto parroco) saranno poi assegnati in possesso (decreto vescovile del 18 ottobre 1986), con tutti gli usi e diritti inerenti, gli immobili in oggetto, che verranno trasferiti dall’Istituto per il Sostentamento del Clero alla Parrocchia di S. Biagio con atto trascritto alla Conservatoria di Lucera nel 1989.
Il 29 agosto 1983 il vescovo Criscito, anche su pressioni delle due eredi Mastrovalerio che lamentavano una destinazione dei luoghi per fini diversi dalle intese scritte nel loro lascito, fu costretto a revocare per iscritto l'affidamento del complesso al Ciavarella, ritenendo che lo stesso l'avesse distolto dalla loro naturale destinazione religiosa e cattolica, intimandogli quindi la consegna delle chiavi nelle mani parroco di S. Biagio De Francesco. Ciavarella non lasciò affatto i locali, continuando ad usufruirne non soltanto per accudirli, restaurarli, vigilarli ma anche per professare sue personali convinzioni religiose, pubblicizzando con manifesti affissi anche nella chiesa un movimento sociale-religioso che lo stesso intendeva istituire sul posto ma in evidente contrasto alla dottrina cattolica.
La concessione, quindi, si trasformò in possesso di fatto da parte di Ciavarella, nonostante le continue proteste dei vescovi succedutisi, del parroco di S. Biagio e degli eredi Mastrovalerio. Il Ciavarella, dal canto suo, concedeva alla parrocchia di ufficiare ogni anno il secolare culto del santo il 19 marzo. Tuttavia, “passata la festa, gabbato il santo”: Ciavarella tornava, durante i restanti giorni dell’anno, ad esporre nella chiesa i cartelli afferenti alle attività e alle convinzioni religiose della sua associazione.
Tale situazione durò a fasi alterne dal 1983 al 2000, periodo entro il quale i festeggiamenti avevano visto anche un progressivo affievolimento, fino a scomparire. Dapprima con l'alibi di parte clericale che la festa cadeva in Quaresima (benché le norme liturgiche prevedano comunque il 19 marzo come solennità); successivamente, per essere i luoghi impraticabili a causa dei lavori di valorizzazione dell'area con un parco attrezzato, che il Comune mise in cantiere grazie a fondi PO-FESR e protrasse a lungo proprio intorno agli anni Duemila. Anche la crescente situazione di ostilità creatasi tra Ciavarella da una parte e il comune e la parrocchia dall'altra, ebbe sicuramente la sua parte determinante.
Alla fine degli anni '90, con la revisione dei territori operata dalla curia vescovile di San Severo, la giurisdizione parrocchiale passò alla Chiesa Madre, sebbene non fu mai formalizzato dalla Curia, evidentemente per dimenticanza, l'atto di voltura che intestava la chiesa alla nuova parrocchia di competenza. Ciononostante, il 2 marzo 2000 il parroco dell'epoca, don Mario Francescano, intimò per iscritto a Ciavarella di lasciare i locali entro tre giorni. Ciavarella non tenne alcun conto della missiva. La sera del 2 luglio dello stesso anno, Ciavarella trovò i lucchetti di accesso al luogo cambiati, tanto da non potervi accedere. In mattinata, infatti, il parroco insieme all'allora sindaco Nicandro Marinacci e ad alcuni vigili urbani e operai del comune, si erano recati sul posto per far sostituire le serrature. Ne nacque un contenzioso, entro il quale Ciavarella (difeso dagli avvocati Bucci e D'Angelo) chiedeva il reintegro in possesso del bene, mentre il parroco (difeso dagli avvocati Gianmario e Alfonso Zaccagnino) si opponeva ritenendo che Ciavarella non poteva vantare possesso su un bene fuori commercio (art. 1145 CC) ma andava qualificato come mero custode.
Il 20 ottobre del 2000 il giudice ordina, in attesa di sentenza, di restituire il libero accesso a Ciavarella per attività di custodia e di vigilanza del luogo, compatibilmente con il pari esercizio delle esigenze di culto della parrocchia. Nel frattempo nel 2003 parroco della Chiesa Madre diviene don Matteo De Meo, in capo al quale passano le competenze in giudizio. Nella causa era comparente anche la Cooperativa Sant'Elena, che per conto del Comune curava la custodia del parco attrezzato. Nelle udienze successive, come riporta il giudice Stefania Izzi, sia il parroco, sia la Sant'Elena permanevano contumaci. Il 9 novembre 2006 si concludeva il contenzioso presso il Tribunale di Rodi Garganico: il giudice Izzi, richiamando l'ordinamento giuridico italiano che “non consente ai cittadini di farsi giustizia da se senza ricorrere alle vie legali” e invocato l'art. 1168 del CC, ritenne che nel 2000 il parroco “avrebbe dovuto rivolgersi all'autorità giudiziaria per far valere i suoi diritti, invece di porre in essere una ingiustificabile azione prevaricatrice”. Pertanto, Ciavarella fu riabilitato giuridicamente al possesso del bene, "da esercitarsi - si legge nella sentenza - nel rispetto della sua destinazione d'uso come specificato in motivazione", ovvero "va peraltro ripristinata la situazione che esisteva precedentemente allo spoglio subito, compresa la destinazione d'uso della cappella a luogo sacro della religione cattolica e chiesetta nella particolare solennità di S. Giuseppe".
E' storia che tale sentenza fu rispettata - e tale permane tuttora - solo nella parte che riguarda il possesso di Ciavarella; fermo restando che il diritto di possesso è diverso dalla proprietà che, in questo caso, non è stata ancora accertata: permangono i dubbi su quando e come il complesso sia passato dal demanio pubblico all’Istituto per il Sostentamento del Clero, atteso anche l’accatastamento incompleto. Di fatto il legittimo possessore (poiché legittimato da sentenza, verso la quale non è stato mai mosso ricorso), fino ad oggi risulta aver utilizzato la chiesetta - dalla sommitá del cui frontone è stata anche divelta la croce in ferro battuto - sempre per attività non solo di altra natura, ma contrarie alla religione cattolica in quanto di tendente stampo panteistico, con elementi ebraici personalmente rielaborati dal Ciavarella, al punto da definirla pubblicamente e in occasioni ricorrenti la "chiesa del perdono infinito". Dal 2007, inoltre, risulta scomparsa la statua ivi venerata (in cartapesta leccese, degli anni '50 del secolo scorso) e la nicchia dell'altare è stata prontamente chiusa dapprima con un pannello riportante i Dieci Comandamenti e, successivamente, con l'iscrizione "Chiesa del Perdono Infinito".
Nella chiesa, negli ultimi anni, hanno avuto luogo esposizioni di cartelli illustrativi della personale religione elaborata dal Ciavarella, nonché pronunciamenti di dottrine di varia natura, di stampo escatologico, che da oltre un decennio occultano di fatto e coram populo qualsiasi riferimento alla religione cattolica, facendo ritenere ai più che la chiesa sia sconsacrata. Sebbene non possa dirsi tale, poiché occorrerebbe un decreto del vescovo, la chiesa può essere sicuramente ritenuta come profanata a norma dei canoni 1210, 1211 e 1212 del Codice di Diritto Canonico. Ciò significa che per tornare ad esercitarsi il culto, occorre un rito appropriato che la restituisca ai fedeli.
Negli anni successivi a questi fatti il Ciavarella ha continuato ad utilizzare la cappella e le sue pertinenze ben più che come legittimo possessore, asservendoli alle proprie esigenze e professandovi il proprio culto, anche con momenti “rituali” immortalati spesso su Facebook. Negli ultimi due-tre anni, poi, la chiesetta è stata particolare oggetto di presunte incursioni vandaliche ad opera di ignoti, volte a danneggiare le esposizioni del Ciavarella, considerato anche che il cancelletto di ingresso permaneva per lunghi periodi senza lucchetto.
Nel gennaio 2020 chi scrive, sentito il parroco della Chiesa Madre, si proponeva come mediatore presso il Ciavarella, suo conoscente, affinché si cessasse qualsiasi ostilità e si consentisse una convivenza pacifica tra egli, possessore legittimato dalla sentenza Izzi, e la Chiesa, a cui spetta la direzione del culto della cappella, come prescritto dalla stessa sentenza. Ad una iniziale accettazione del Ciavarella, seguiva un suo rifiuto nel momento in cui gli si proponeva la celebrazione della messa almeno il 19 marzo: “i preti celebrassero le messe nelle loro chiese in paese, qua non devono venire”, asseriva egli all’indirizzo dello scrivente, aggiungendo “questa non è una chiesa, l’hanno detto gli uomini che è una chiesa”.
Nell’agosto successivo, due operai ARIF Regione Puglia, di stanza sul posto per vigilanza antincendi boschivi, si accorgevano tra le altre cose che il Ciavarella aveva fissato due pannelli di legno al cancello della porta della chiesa (serrato solamente con un filo di ferro) con l’evidente intento di nascondere l’interno: sbirciando tra i pertugi delle tavole si accorgevano che non solo l’aula interna della cappella era ormai ricettacolo di rifiuti di ogni genere, cumuli di inerti compresi, ma l’altare era stato sfregiato all’altezza della mensa con colpi di martello o di piccone. Seguivano segnalazioni dello stato dei luoghi alle Autorità competenti. Intanto nel marzo 2021, grazie ad un video fatto pubblicare dal Ciavarella su Facebook, mentre lo stesso era intento a raccogliere inerti e denunciava, pur minimizzando, una presunta incursione di vandali, nella chiesa si scopriva essere stato completamente demolito l’altare (mensa e paliotto).
Ne sortiva, finalmente, l'interessamento della Soprintendenza ai Beni Culturali di Foggia e BAT e del Nucleo Tutela del Patrimonio Artistico dei Carabinieri di Bari, dai quali si attendono ulteriori sviluppi.