'La mafia innominabile': don Bruno, "un pugno nello stomaco"

Grande partecipazione nell'auditorium di Palazzo Fioritto

In una sala convegni di Palazzo Fioritto gremitissima, con una massiccia presenza di giovani studenti, cittadini e  rappresentanti delle autorità civili e militari locali, si è svolto l'atteso incontro con il Procuratore Capo della Repubblica di Lucera, Domenico Seccia, per la presentazione del suo libro "La mafia innominabile" organizzato dall'assessore alla cultura Rosa Ricciotti.

Con Seccia, al tavolo dei relatori, don Raffaele Bruno (già coordinatore regionale di Libera, associazione contro le mafie) e Massimiliano Arena (presidente della Camera minorile di Capitanata), moderatrice la giornalista Tatiana Bellizzi. Un uditorio attento, a tratti attonito, ha sentito risuonare nella sala le parole "impronunciabili" del procuratore, sui fatti efferati e terribili che hanno insanguinato anche questo pezzo di Gargano, insieme ai nomi dei protagonisti locali della mafia "innominabile", perchè per lungo tempo anche qui rimasta colpevolmente "innominata".

E la parola ha assunto un ruolo centrale nel corso dell'incontro, quale fattore indispensabile per vincere l'omertà che permette alle mafie locali di crescere e radicarsi, soprattutto qui, sul promontorio, dove per il procuratore Seccia oltre ai ritardi della giustizia che ha impiegato più di 30 anni ad apporre il sigillo mafioso alla criminalità garganica, molto ha pesato il ritardo, definito più greve, pesante, della politica e della società civile garganica, che si è girata dall'altra parte, preferendo la rappresentazione della realtà alla realtà stessa.

Un distacco che in alcuni paesi è stato abissale, consentendo alle oligarchie del potere mafioso di dettare i tempi e i modi della convivenza nelle comunità, compenetrando anche la politica (come a Manfredonia) sottraendo diritti di cittadinanza e libertà, evolvendosi da faide familiari in lotte per il controllo dei traffici illeciti sul territorio e in racket delle estorsioni. Fondamentale la parola, per Seccia, nelle esternazioni pubbliche di chi riveste ruoli di rilievo nella società che non deve aver paura di chiamare la mafia per nome, ma anche, per don Raffaele Bruno, nella rivendicazione del diritto alla paura della società civile, per la riconquista della dimensione sociale di una comunità, nell'indignazione della Chiesa per la dissacrazione religiosa insita nei terribili rituali mafiosi.

Solo questi possono essere gli antidoti per sconfiggere le mafie che nessun angelo vendicatore esterno può debellare, nè, tantomeno, passerelle di esperti sui temi della legalità. «Mi auguro che questo libro rappresenti per questa terra un pugno nello stomaco, che vi dia molto fastidio», la dura provocazione dell'esponente di Libera. Poi la caratterizzazione del fenomeno da parte del procuratore: «La mafia garganica è la più efferata - ha spiegato Seccia -: spara in faccia, come estremo segno di annientamento, fa sparire i corpi, ha i suoi riti e le sue peculiarità, come quello di leccare il sangue del nemico (riferito a Matteo Ciavarrella per l'omicidio di Carmine Tarantino) emerso dalle cronache giudiziarie; rito che non è inventato, ma che ha una sua propria radice storica (certi briganti del Gargano bevevano il sangue delle loro vittime).

Non esiste un'altra mafia così - ha proseguito -: che registra l'efferatezza di questo rito del sangue che annienta l'avversario in una eucarestia del male, praticata da quella sorta di "sacerdote" (Ciavarrella) che decideva chi doveva vivere e chi doveva morire". Rituali, ma anche codici propri, ricordati dal procuratore, come il colloquio "muto" con l'ergastolano Giuseppe Tarantino (condannato per l'assassinio e l'occultamento dei cadaveri di 5 membri della famiglia Ciavarrella nel 1981, dando l'avvio alla guerra tra i clan) che non parla perchè non riconosce lo Stato, connotato comune della mentalità mafiosa che percepisce lo Stato come invasore illegittimo del proprio territorio e ne rifiuta le regole e l'autorità».

Lo stesso disprezzo che Seccia ritrovò nel primo interrogatorio di Rosa Lidia Di Fiore, la donna di mafia che ha rappresentato la congiunzione tra le due mafie sannicandresi, in quanto madre di quattro figli: due di un Tarantino (Pietro) e due di un Ciavarrella (Matteo), sua dannazione, ma anche motivo del suo riscatto, determinandone il pentimento. «La storia di Rosa Lidia Di Fiore - ha conlcuso Seccia - è quella di una donna garganica che supera il paradigma della donna garganica in nero, destinata solo a procreare e senza voce in capitolo; lei è partecipe, invece, prima di ribellarsi e dare una svolta significativa alla storia della mafia garganica». Immagine che, per don Raffaele Bruno, è la rappresentazione della storia collettiva di questa terra che deve trovare al suo interno la forza di ribellarsi.

Anna Lucia Sticozzi

Menu