In ogni angolo del Gargano vi è posto un frammento di storia i cui avvenimenti non tutti sono documentabili. Gli stessi episodi raccontati, si modificano poi nel tempo e così che dalla storia passano alla leggenda.
Le scosse di terremoto e il caldo torrido verso l’inizio degli anni cinquanta, non consentivano di far dormire la popolazione sannicandrese. Nelle notti di quell’estate, gli abitanti del rione “vigna di Brenna” solevano riunirsi nella strada di via Ariosto formando un semicerchio per recitare il santo rosario con di fronte la chiesetta di San Giuseppe bene in vista, invocando San Michele per ogni scossa. Alla domanda perchè s'invoca San Michele? Così la risposta: “l'angelo cattivo nelle sembianze di serpente ha convinto Adamo a mangiare la mela. L'angelo punito da Dio per la vergogna si rifugiò in fondo alla cavità terrestre ed ogni volta che tenta di risalire alla superficie provoca il terremoto, San Michele è il Cavaliere Dominatore del serpente”.
Terminato il rosario le persone anziane raccontavano storie di avvenimenti antichi .
In quell’occasione che sono venuto a conoscenza delle origini della scampagnata.
Tradizione ancora oggi ricorrente (in misura ridotta) ogni 19 Marzo (l’onomastico di San Giuseppe Padre putativo di Gesù e l’attuale festa del papà). Questo il racconto:
Un giovane di nome Giuseppe nato da una relazione occasionale fra una domestica e un signore benestante il quale, per non infangare la sua reputazione destinò da subito mamma e figlio in una località lontana e ben isolata dal resto del paese.
Il ragazzo rimasto poi orfano continuò a lavorare nei campi in qualità di garzone senza mai scendere al paese. Il giovane desiderava conoscere altri luoghi, altra gente e soprattutto visitare il paesello che i compagni di lavoro trascorrevano nelle festività e al loro ritorno raccontavano tutti particolari suscitando ancor di più la sua curiosità tanto che si sarebbe accontentato di vederlo almeno da lontano.
Un giorno mentre era intento a preparare il terreno per la piantagione della vigna, lavoro molto duro e faticoso, consiste nel rimuovere il terreno in profondità, ripulirlo da ogni erbaccia e togliere qualche sasso incastrato.
La giornata era ancora invernale ma soleggiata, il cielo era limpido e celeste.
Ogni tanto si sdraiava per terra con il viso rivolto verso l’alto per riposare la schiena; la distanza dal cielo era tanta, forse la stessa che lo separava dal paese, così immaginava e si rassegnava. La solitudine di tutta la sua esistenza e il mancato contatto con altri suoi simili travisavano le dimensioni della realtà.
Il cielo è vero che è distante ed immenso, ma ha la capacità di ascoltare, di vedere le azioni, i desideri, i lamenti, i sentimenti buoni e cattivi di tutta l’umanità e nel tempo, questi vengono premiati, esauditi, placati e manifestati.
Il giovane aveva con sé quattro arnesi per poter espletare quel tipo di lavoro: una zappa, un piccone, una vanga e una mazzetta. Nel mentre era intento a lavorare, una improvvisa tromba d’aria lo sollevò trasportandolo via e con lui tutti gli attrezzi. Per alcuni giorni non si ebbero notizie.
Tutti i luoghi del Gargano erano frequentati da pellegrini che venivano dai paesi lontani per sostare e visitare i luoghi sacri dove diverse Divinità avevano dimorato.
Il Promontorio fin dall’era pagana era famoso per la sua posizione di come ruota intorno al sole, per il suo clima, per il punto d’incontro di tutti i venti, per le correnti che rendono l’aria pura, per essere baciato dal mare, per essere ammirato dalle costellazioni più celebri e per essere coronato dalle mezze fasi lunari; luogo serio e antico dove i Pellegrini venivano e vengono a rigenerarsi di energie Spirituali.
Un pellegrino attraversando la cima della collina in mezzo a un bosco fitto di alberi di ulivi e di lecci, il giorno del 19 marzo, avvistò il corpo di un giovane seduto, con gli occhi ancora spalancati, come fosse vivo e come se ammirasse il paese visibile in ogni sua parte. Le spalle erano sorrette da un muretto a forma di semicerchio come una nicchia e a lui accanto: una zappa, una vanga, un piccone e una mazzetta.
Era il cadavere di Giuseppe venuto da lontano, caduto dal cielo.
Sotto di lui la vista completa del paese di Sannicandro quasi a portata di mano.
Fu sepolto in quel luogo e tutti quei sassi furono adoperati per fare una casetta rurale.
Questo racconto è privo di documentazione mentre esiste quella relativa ai nomi degli eremiti che abitarono per mezzo secolo in quel luogo intorno al 1700:
Giuseppe Ferrandino da Cagnano fino al 29.06.1717
Cataldo D’Augello al 08.09.1719
Giuseppe Birardo al 20.03.1730
Stefano Martuccio al 17.04.1741
Alessandro Scuro da Laino al 1743
Nicolò Rinaldi al 20.05.1753
Verso la metà dell’800 fu costruita la chiesetta. La popolazione sannicandrese ogni 19 marzo onomastico di San Giuseppe andava in pellegrinaggio, ascoltava la Messa solenne e dopo consumava all’aperto, i cibi che portava da casa.
La data coincide con l’addio dell’inverno e con l’arrivo della primavera, infatti, il sentiero che ricollega la chiesetta al paese è ricco di viole con le quali venivano utilizzate per ornare l’Altare.
I ragazzi poveri si impegnavano alla buona riuscita della composizione delle viole per barattare i mazzolini con qualche uovo sodo o con un pezzo di frittata.
Per tutti loro era una grande festa, l’arrivo della primavera rappresentava la rinascita, la fine delle sofferenze patite dalle lunghe giornate fredde invernali.
L’aria oltre al profumo dei fiori era invasa dagli odori dei cibi che i pellegrini portavano per consumare dietro la chiesetta mettendo tutte le pietanze in comune: frittate, caciocavallo, pezzo di maiale stagionato, lampascioni cucinati al forno, ricotte e scamorze, ognuno offriva il meglio della scorta in casa; per l’occorrenza venivano preparati i dolciumi come: peperati, taralli, biscottini con il seme di anice e le ciambelle. Il vino nostrano era posto nel fiasco che veniva passato di mano in mano dei partecipanti.
Negli anni cinquanta ricordo che si brindava con la birra peroni misto alla gassosa e con l’aranciata chimica (acqua bustina di polvere effervescente e fialette di essenza d’arancio). Si cantava fino a sera “quel mazzolin di viole che vien dalla montagna e guarda ben che non si bagna te lo voglio regalar”.
Il tentativo di regalare un mazzolino di viole ad una ragazza, pur non muovendo le labbra tanto era lo sguardo a recitare, era per sé un atto di coraggio e se per caso veniva accettato rappresentava una vera conquista.
La collina di San Giuseppe è di certo un luogo sacro e suggestivo, persino i venti fanno mulinello e soffiano sempre un’aria fresca messaggera di fratellanza e di bontà.