Gli effetti devastanti dell’ultima guerra mondiale hanno messo a dura prova la maggior parte della popolazione sannicandrese. Le famiglie provate da lutti e da malattie sono diventate ancor più povere.
La classe operaia è stata nel dopo guerra, la più provata dalla miseria. Molti genitori furono costretti ad affidare i propri figlioletti a gestori artigianali ed agricoli per garantire loro un pezzo di pane. Questi ragazzi non venivano neanche iscritti alla scuola dell’obbligo per mettersi a disposizione delle maestranze per tutta la durata del giorno. Gli scapaccioni erano consentiti dai superiori per qualche errore banale o per sfogo degli umori delle stesse maestranze.
Apprendere un mestiere era un obbligo; per coloro che intraprendevano l’arte della campagna, l’inizio lavoro consisteva nel pascolare le bestie ricevendo come retribuzione: il pane quotidiano, un litro di olio, un chilo di sale al mese, una forma di cacio a Natale (la grandezza a discrezione dell’avarizia del padrone) e una piccola paghetta. I ragazzi erano già maturi e consapevoli della situazione economica familiare tanto da risparmiare l’olio e il sale così da riportare la quantità residua alle proprie case.
I genitori pattuivano con i datori di lavoro, il salario e due giorni di riposo bimensile oltre alla garanzia della festività del 1° Maggio. I giovani lavoratori dovevano sottostare agli ordini degli anziani garzoni andando a prelevare l’acqua dai pozzi e dalle cisterne, raccogliere la legna per il fuoco serale, lavare la pentola, il piatto (unico per tutti), attendere che gli anziani iniziassero per primi l’assaggio dei pasti trattenendo il proprio languore.
Il rispetto e l’obbedienza verso l’anziano e il padrone erano doveri indiscutibili.
Il Segno della Croce era l’unica preghiera che conoscevano e che rivolgevano al cielo per ringraziare alla riuscita del rientro della mandria quando le intemperie incombevano in aperta campagna e le bestie spaventate dal vento, dai tuoni e dai fulmini non erano più controllabili e prendevano direzioni diverse.
La festa del 1° Maggio era come onorare le prestazioni di tutti i lavoratori e attraverso lo sfogo collettivo sprigionare il coraggio represso; la rivalsa di tutte le ingiustizie accumulate durante l’anno. I preparativi iniziavano giorni precedenti alla festa, ragazzi e donne si dileguavano nei campi per raccogliere fiori rossi e bianchi perchè i loro petali venissero utilizzati dai due cortei.
La mattina del primo Maggio la popolazione si radunava nella piazza davanti alla camera del lavoro, largo Fioritto per formare il corteo. I piccini davanti vestiti di camice rosse con le bandierine in mano marchiate con lo stemma della falce e martello; subito dietro la signora Filomena Stigliana definita dai compagni “Minuccia la Passionaria” ordinava le fila delle donne ornate con il capo di ghirlande rosse. Alcune di esse sostenevano grossi cesti pieni di petali di rose e papaveri che lanciavano per tappezzare il passaggio di qualche rappresentante sindacale o di partito.
Gli esponenti di spicco portavano all’occhiello il garofano rosso e con il megafono pronunciavano frasi di rivendicazioni oppure davano l’inizio all’inno del proprio partito “Avanti popolo alla riscossa, bandiera rossa, trionferà” e tutte le bandiere sventolavano contemporaneamente.
Gli uomini al seguito con i propri mezzi di lavoro: biciclette, asini, muli, ricoperti di mantelli rossi e non appena la banda dava inizio all’inno del “1° Maggio o di bandiera rossa”, gli animali spaventati ragliavano e nitrivano fortemente. Il corteo in prossimità dell’abitazione di qualche benestante aumentava la tonalità degli inni provocatori che diventavano sempre più assordanti; questi i versi: “mangiatillo e sugatillo il limone, lo sappiamo che non ti piace ma oggi devi farti capace che il limone devi mangiare” (unico giorno in cui i padroni sostituivano i loro garzoni per i fabbisogni della campagna).
L’altro corteo più contenuto, quello del partito democratico, partiva dalla parte opposta composto: da impiegati, professionisti e praticanti religiosi con le bandiere bianche marchiate dallo stemma dello scudo crociato, meno affollato dell’altro ma più ricco di mezzi; qualche trattore, molti carri con sopra le donne che lanciavano i petali di rose bianche; cavalli con criniere intrecciate ricoperti con mantelli, preparati quasi a partecipare a vecchi rodei medioevali, essi scalpitavano storditi dal canto di “oh bianco fiore simbolo d’amore” oppure dagli applausi di ogni battuta pronunciata al microfono da qualche esponente del partito.
Il tutto si svolgeva con civiltà, ordine e compostezza nel pieno rispetto reciproco.
I cortei si scioglievano dopo i comizi tenuti dai loro rappresentanti politici e sindacali che fissavano l’appuntamento nel pomeriggio per la scampagnata nelle due località diverse. Quelli dei lavoratori rossi, presso la collina del Monte Vergine, quello del corteo con le bandiere bianche presso la località di “Papaglione”.
I luoghi prefissati, in aperta campagna, erano come invasi da formiche colorate che prendevano d’assalto: frittate, formaggi, lampascioni al forno, salsicce, taralli e ciambelle, tutti prodotti fatti in casa, mentre il vinello aspro nostrano, posto nei fiaschi, veniva sorseggiato e il recipiente passava di mano in mano; quel liquido alimentava ancor di più lo sfogo libero sprigionando battute, risate e gesti provocatori nei confronti delle maestranze e padroni.
Per l’occasione si organizzavano diverse attività agonistiche, dove i protagonisti erano gli stessi manifestanti come: tiro alla fune, corsa nei sacchi, la cuccagna, quest’ultima prova consisteva nel fissare un palo robusto alto di circa quattro metri, reso viscido dal grasso ed in cima venivano appesi: formaggio, prosciutto, fiasco di vino e capretto o agnello legati alle quattro zampe che belavano per tutto il corso della manifestazione, sotto veniva legato lo stendardo rosso per il partito comunista e lo stendardo bianco per il partito democratico.
I partecipanti che toccavano lo stendardo per prima portavano a casa i prodotti.
I vincitori erano sempre i ragazzi poveri, bramosi di impossessarsi dei prodotti riscattando l’astinenza della fame patita nel periodo lungo e freddo dell’inverno.
Utilizzavano una tecnica infallibile oltre ai muscoli delle braccia e alla presa delle gambe, si sporcavano gli abiti di ceneri e di terra per assorbire il grasso e scivolare meno possibile.
La corsa degli asini era lo spettacolo più divertente, gli animali non sempre ubbidivano al proprio fantino, si fermavano di colpo disarcionandolo oppure prendevano direzioni diverse ragliando spaventati.
La corsa dei cavalli era la più classica, un fantino si distingueva dagli altri per bravura, era il rappresentante della organizzazione sindacale dei lavoratori “Raffaele Penna” che si toglieva le scarpe e con i pantaloni di talba e la camicia rossa montava il cavallo a pelo (senza sella) di Vincenzo Monte alias Cordalenta e prima di ogni gara circolava il detto “Penna-Cordalenta è l’ accoppiata vincente”.
Per l’occasione si organizzava la gara ciclistica con arrivo alla “copplaccitta” strada in salita, non ancora spianata e asfaltata. I manifestanti dei “bianco fiore” si accamparono in prossimità della collina di San Giuseppe mentre i rivali nella parte opposta; la statale 89 faceva da vera trincea. Quell’anno alla gara vi presero parte molti corridori di altre regioni e quando prima dell’arrivo sopraggiunse una macchina balilla in cui l’organizzatore “Costantino Maccarone”, anche direttore di gara, annunciava la fuga di un solo corridore, atleta nostrano, Michele Panizio, soprannominato “Michelino Pingillo”, un unico boato di gioia s’innalzò in quella collina e la folla si ammucchiò velocemente lasciando pochissimo spazio al passaggio della macchina.
Il nostro atleta inseguito da un gruppetto di corridori molisani e baresi, stringeva i pedali con fermezza, affrontando la dura salita tagliando per primo la linea del traguardo nonostante la stanchezza.
Il nostro corridore passista di tutto merito, si allenava dopo aver sistemato la vigna, sua unica palestra, la zappa altro attrezzo; allenarsi in bici, per lui era pieno divertimento; quando qualcuno chiedeva notizie sulla sua alimentazione rispondeva: “pane, scorcia e mollica”, era serio e parlava in modo assennato e lento e le sue parole comunicavano la dote virtuosa della modestia.
Un suo amico raccontò che per partecipare alla gara organizzata dal comune di Monte Sant’Angelo, distante 80 km. circa dal suo paese, partì in bici, vinse la corsa di 120 km. e fece ritorno con la stessa a casa. Un personaggio amato da tutti i presenti e la gioia per quella vittoria scatenava abbracci e brindisi, annientando completamente la rivalità; il luogo improvvisamente si trasformò in un unico colore “bianco e rosso”.
Quella vittoria esaltava il valore umano accampato in ogni cittadino sannicandrese, lo stimolo della caparbia riuscita, il riscatto della vittoria sociale, molti di loro erano consapevoli di abbandonare la terra natia e si preparavano ad affrontare ostacoli e rivali che avrebbero incontrato lungo le strade del mondo.
Attualmente il 1° Maggio si svolge in modo diverso, la piazza della Capitale è l’unico luogo per la scampagnata dove i lavoratori arrivano da ogni parte d’Italia stremati dai lunghi viaggi trascorsi nei pulman o nei treni messi a disposizione dai rappresentanti politici e sindacali per ascoltare i loro comizi e per assistere con suono assordante la musica del concerto rock.
La manifestazione sannicandrese di quel tempo era sentita da tutta la popolazione, era più viva, era più bella.
Agli organizzatori che con risparmi e il tempo libero dei cittadini, riuscirono ad organizzare l’enorme manifestazione senza incidenti; alla Sig.ra Minuccia la Passionaria e a tutte le donne che sono uscite allo scoperto mettendo da parte la riservatezza assai osservata e rispettata in quei tempi ma hanno accompagnato, senza vergogna, mariti e figli a gridare 'Libertà è Partecipazione'; a quei ragazzi temperati da spirito di sacrificio che si sono riscattati raggiungendo poi traguardi ambiti in Italia e nel mondo; a Costantino Maccarone, a Michele Panizio e ai tanti protagonisti sportivi; a coloro che hanno sfilato per le strade con entusiasmo pacifico e che hanno onorato e arricchito “quel dì di festa”, nonostante la cruda reale povertà; a Tutti, ancora a Tutti il meritato applauso.
Antonio Monte da Milano